
Seguire le logiche che delineano l'attuale politica estera americana, sotto l'Amministrazione Trump, non pare affatto un compito facile. In linea di massima, sembra un inseguimento in cui l'inseguito, ovvero l'Amministrazione Trump, corra a zigzag con improvvisi cambi di traiettoria per non farsi raggiungere e prendere dall'inseguitore, ovvero l'auto della polizia. Supponiamo che in questo caso l'inseguitore sia invece chi debba analizzare quel comportamento, ad esempio un analista di materie geopolitiche, o peggio ancora un paese trovatosi suo malgrado destinatario di certe non gradite attenzioni da parte dell'inseguito, gli Stati Uniti; ed ecco che ci rendiamo conto di quanto pericoloso ed imprevedibile sia quell'inseguimento. A conforto di una tale considerazione si potrebbero citare come esempio i vari fronti esteri in cui è attiva la politica strategica americana, dal Medio Oriente all'Ucraina, dall'Africa al Pacifico, dai rapporti con la Russia a quelli con la Cina o ancora con l'Unione Europea; a tacer poi di quelli con tutti gli altri medi e grandi attori internazionali.
L'impressione di una certa schizofrenia albergante nelle stanze del potere americano appare piuttosto condivisa, seppur calmierata da una considerazione di fondo: in tutto questo vuoto strategico, fatto di politiche contraddittorie e puntualmente revocate o rivisitate, c'è sempre una coerenza di fondo, che vede proprio nel seminare continue finte e capriole il suo filo conduttore. Navigare a vista con continue improvvisazioni, con brusche e spiazzanti corse in avanti e pronte e fragorose retromarce, è il modo con cui oggi gli Stati Uniti si vedono costretti a procedere come risultato di tutta una loro storica sommatoria di grandi errori all'interno e all'esterno, e di tardive o mancate, per ragioni di comodo, azioni correttive. Ma l'obiettivo resta sempre quello di preservare il proprio predominio relativo a livello globale, sempre più messo in discussione non soltanto dall'avvento e dal rafforzamento di nuovi ed importanti attori strategici, ma anche dai propri tanti e non sempre riconosciuti errori. Dinanzi al sorgere di nuove grandi potenze alternative, e di un ordine multipolare che incarnano e che vedono gli Stati Uniti come importante comprimario ma non certo più come primo od insostituibile protagonista, Washington si vede costretta a tentar di tutto per vender cara non soltanto la propria ma anche quella del vecchio ordine unipolare che la vedeva come dominus assoluto e che oggi nei fatti già non esiste più.
Da un punto di vista economico, ma anche politico se consideriamo la sua enorme capacità d'aggregare un grande consenso intorno a sé in virtù di una politica estera tradizionalmente basata sul mutuo rispetto e vantaggio, è la Cina la prima fonte di preoccupazioni del gigante americano; persino più della Russia che col conflitto in Ucraina in oltre tre anni ha messo fortemente a nudo le enormi debolezze intrinseche dell'architettura strategica e militare atlantica, ruotante intorno alla NATO. La corsa alle sanzioni e ai dazi contro Pechino ingaggiata dall'Amministrazione Trump ha trovato dall'altra parte un comportamento che ha finito con lo spiazzarla e precipitarla in una sorta d'isteria politica, al punto che tanto rapido e brutale è stato l'approccio verso la Cina quanto precipitoso ed umiliante il ritorno a più miti consigli.
Ora, con l'apertura a Londra del nuovo meccanismo di consultazione economica e commerciale Cina-Stati Uniti, frutto dei già costruttivi confronti visti ultimamente a partire da quelli in Svizzera, si spera che il percorso di dialogo possa continuare a svilupparsi con esiti indubbiamente più positivi non soltanto per le due grandi economie coinvolte, ma anche per tutto il resto di un pianeta ormai sempre più globale e globalizzato. Il “grande sogno americano” di spegnere i riflettori su una stagione come la globalizzazione, a cui negli Anni ‘90 come prima potenza mondiale del tempo non avevano potuto non prestarsi, s’è infranto dinanzi al confronto con la realtà. Una curiosità che riguarda il nuovo meccanismo di dialogo è che, per la parte cinese, a guidarlo sia il vicepremier He Lifeng, uomo noto per la sua grande abilità di mediatore. Probabilmente, visto il buon risultato già apparso dal summenzionato incontro di Ginevra, Pechino ha a cuore che i progressi sin qui raccolti siano mantenuti e valorizzati anche nel tempo.
Non è un caso che in una recente conversazione telefonica tra Donald Trump e Xi Jinping, questi abbia ricordato all'altro proprio l'importanza di quei progressi, il buon tenore dei rapporti delineatosi in quel vertice, e soprattutto quanto la Cina sempre mantenga gli accordi stipulati; è dunque più che esortativo che anche la controparte faccia altrettanto. In fondo, come ricordato proprio da Xi Jinping in quella telefonata, sono stati proprio gli Stati Uniti a voler quell'incontro a Ginevra, visto che la loro corsa ai dazi contro la Cina stava innescando vasti problemi nel loro mercato interno, nel controllo della loro inflazione e per giunta anche tanti imprevisti collaterali nelle relazioni con altri attori terzi. Rimuovere le ultime misure sanzionatorie contro Pechino, tuttora in vigore, rappresenterà sotto quest'aspetto un importante passo in avanti, anche perché questo braccio di ferro internazionale ha insegnato quanto gli Stati Uniti di oggi abbiano fortemente bisogno della Cina. Per quanto possa apparir da duro da accettare per l'orgoglio politico americano, nel commercio globale Pechino può far a meno di Washington, ma Washington non può far a meno di Pechino. Ma, e questo è pure importante e non scontato, Pechino non vuole fare a meno di Washington: per quest'ultima è un'occasione preziosa, a cui non rinunciare.
Inoltre un ulteriore miglioramento dei rapporti reciproci consentirebbe, a beneficio di tutta la comunità globale, anche una maggior identità di vedute in ambiti come gli affari esteri e le questioni militari, dunque non soltanto le già preziose materie economiche e commerciali. A tal proposito, non andrebbe dimenticata neppure una ben seria questione come quella dei rapporti sino-americani sull'Isola di Taiwan: gli Stati Uniti, come ricordato da Xi Jinping proprio in questa telefonata, non dovrebbero lasciarsi coinvolgere dagli indipendentisti che vorrebbero proclamare un'indipendenza di Taipei dalla Cina, portandoli allo scontro proprio con quest'ultima. Non solo la Cina, dunque, ma anche e soprattutto gli Stati, in questo caso, devono far sì che gli elementi indipendentisti e nazionalisti di Taipei li portino allo scontro e persino al conflitto. Raggiungere una piena identità di vedute tra Cina e Stati Uniti è dunque non soltanto possibile ma soprattutto indispensabile.