
A Washington pochi giorni fa due diplomatici israeliani sono rimasti vittime di un attentato sulle cui responsabilità rapidi e puntuali sono stati puntati gli indici accusatori. La prima accusa, quella dell'antisemitismo, più volte udita in oltre un anno e mezzo di conflitto a Gaza e non solo, ha provveduto a dare un parziale riallineamento delle cancellerie occidentali che negli ultimi tempi s'erano forse un po' troppo smarcate dal difendere il “diritto a difendersi” di Tel Aviv. I vari media internazionali a guida occidentale hanno prontamente parlato delle due vittime con un'azione tesa a sollevare una dovuta empatia, tra le tante cose utile pure a mettere un po' più in ombra quanto intanto avviene a Gaza, dove le FFAA israeliane mirano ad ottenere il completo controllo del territorio e i morti, bambini compresi, sono ormai stando a Middle East Monitor quasi 54mila, a cui vanno ad aggiungersi anche oltre 11mila dispersi o scomparsi. Non passa inosservato, presentandosi come conferma dell'ormai affermato “doppio standard” dell'informazione e della politica occidentale, il fatto che sulla carneficina in atto a Gaza, come in altre regioni del Medio Oriente, ben di rado sia stata data un'altrettanto zelante copertura, ancor più tesa a sollevare nel pubblico il sentimento dell'empatia; tolta ovviamente una certa stampa di settore che, nell'attenzione dell'opinione pubblica, raccoglie solitamente le briciole.
Del resto, delle sincere volontà di fermare o quantomeno ostacolare la mano israeliana da parte dei paesi europei e degli Stati Uniti che, al netto di certa retorica sui primi dissapori tra Washington e Bruxelles all'indomani dell'arrivo di Trump, continuano a rimanere il loro primario “demiurgo” nelle scelte di politica internazionale, c'è sempre stato molto di cui dubitare. Certamente né gli europei né gli americani intendono assecondare Israele fino in fondo, ovvero Netanyahu, perché se il primo resta irrinunciabile ed inaggirabile come loro alleato principale in Medio Oriente, il secondo al contrario sempre più si sta rivelando come un interlocutore a dir poco inquietante ed inaffidabile. Quel che a Washington e nelle capitali europee si teme è che la politica di Netanyahu e dei suoi alleati di governo possa condurre davvero Israele oltre il "punto di non ritorno", compromettendone l'esistenza futura e con quella anche molti degli interessi occidentali in Medio Oriente, ad oggi legati ad equilbri che l'azione di Tel Aviv ha già seriamente e in parte irrimediabilmente pregiudicato.
Questo può spiegare il perché del fallito voto europeo sulla revisione del Trattato d'Associazione tra Unione Europea ed Israele, da un anno auspicato da Spagna ed Irlanda ed infine avanzato anche dall'Olanda, scontratosi col veto di nove Stati membro tra cui l'Italia. Dinanzi al lancio da parte d'Israele dell'Operazione “Carri di Gedeone”, un segnale politico di relativa forza come la sospensione del Trattato, che nelle sue premesse oltretutto contiene richiami ai “diritti umani” e ai valori democratici, non sarebbe stato tanto inopportuno. Ma evidentemente tra le due sponde dell'Atlantico l'opinione della classe dirigente, soprattutto la più conservatrice, è che non sia il caso d'esagerare troppo con certi richiami verso chi resta pur sempre un “amico”. Ancor più se, giocandosi il favore anche solo temporaneamente di Netanyahu, ci si giochi poi pure quello del più vasto apparato politico e militare israeliano, con cui gli analoghi apparati militar-industriali europei ed americani hanno da sempre una profonda “condivisione”, andatasi per giunta ad infittire dallo scoppio della guerra ad oggi. Proprio per questo, come già dicevamo, delle sincere volontà europee ed americane di frenare la mano israeliana c'è a tutt'oggi assai da dubitare.
Non diversamente vale per l'ipotesi d'applicare sanzioni ai coloni israeliani, parimenti vagheggiata dall'Alto Rappresentante agli Affari Esteri Kaja Kallas, che si sarebbe scontrato col veto ungherese. Pesa in questo caso, come pure su quello del già menzionato voto sulla revisione o sospensione del Trattato d'Associazione, oltre alla posizione dei singoli governi e agli interessi politici ed economici che mirano a tutelare, pure l'alleanza “informale” tra Israele e quei paesi europei, da cui provengono molti di quei coloni. Non è infatti un caso che gli Stati europei rivelatisi più zelanti nel difendere i legami tra Israele ed Unione Europea siano spesso proprio quelli dell'Europa Orientale, da cui provengono le ultime generazioni di cittadini israeliani oggi in buona parte coloni nei Territori Palestinesi. Hanno cominciato ad espatriare verso Israele, pur mantenendo solidi legami coi loro paesi d'origine, all'indomani della caduta del Campo Socialista: molti i polacchi o i baltici, per esempio, ma anche gli ex cittadini sovietici, d'origine ucraina o russa. Non è infatti un caso che, pur esprimendo chiaramente a livello internazionale le proprie posizioni sul conflitto, anche Mosca cerchi di mantenere, in virtù della forte comunanza data dalle comunità russo-ebraiche presenti sia in Russia che in Israele, rapporti non troppo conflittuali con quest'ultimo.
Può certamente rivelarsi interessante a molti nostri lettori, a tal proposito, la visione di un documentario emesso circa un mese fa dalla BBC, The Settlers, dedicato alla realtà dei coloni israeliani in Palestina: ben 700mila persone, sparse dalla Cisgiordania a Gerusalemme Est, senza ovviamente dimenticare altre propaggini verso il Libano. La loro espansione è iniziata dal 1967, nei territori che Israele temporaneamente occupò dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, e violando il diritto internazionale di fatto mette a repentaglio pure la fattibilità della Soluzione a due Stati secondo i confini asseriti proprio in quell'anno. Conseguentemente quegli insediamenti violano le risoluzioni ONU, ma anche la Quarta Convenzione di Ginevra che infatti esclude per una potenza occupante il diritto di trasferirvi parte della propria popolazione. Tuttavia esprimono una tendenza demografica che ha caratterizzato Israele negli ultimi decenni quando, assorbendo quote crescenti di nuovi cittadini provenienti dall'Europa Orientale e dagli Stati Uniti, ha sempre più scientemente assecondato questa politica d'espansione territoriale. Dopotutto in tal modo, giorno dopo giorno, Israele può espandersi clandestinamente finché, dinanzi all'aumentata “contrarietà” palestinese, può pure giustificare agli occhi dei propri alleati un'azione militare tesa a tutelare gli insediamenti ritenuti a quel punto in pericolo. E' il gioco che è stato condotto sino ad oggi, ma che, ampliatosi ormai a livelli esageratamente più grandi, tanto da voler persino implicare una piena conquista della Striscia di Gaza, sta cominciando adesso a risultare difficile a nascondersi anche per i suoi più fidi alleati occidentali. Che, in ogni caso, almeno per quanto riguarda molti di loro, per il momento sembrerebbero non voler e non poter muoversi oltre una linea per così dire “politicamente pubblicitaria”.