
Nelle ultime settimane, le relazioni tra India e Pakistan sono passate attraverso gravi turbolenze, con inevitabili impatti politici, diplomatici e militari. A provocare l'escalation è stato un attacco terroristico avvenuto lo scorso 22 aprile a Pahalgam, nella regione frontaliera del Jammu e Kashmir, sotto controllo indiano ma rivendicata da Islamabad, con la morte di 26 civili. L'India ha prontamente accusato il Pakistan di sostenere i gruppi responsabili dell'attentato, primo tra tutti un misterioso Fronte di Liberazione locale, indicato come creatura dei servizi segreti pakistani. Da parte pakistana sono però giunte soltanto smentite, e per la verità pure in India non tutti hanno creduto più di tanto alle accuse dei militari e dei governanti. Commentavo la notizia proprio lo scorso 7 maggio, in questo articolo apparso su l'Opinione Pubblica.
Inizialmente la tensione è stata politica e diplomatica, prebellica. L'India ha stabilito una serie di misure ritorsive, come la sospensione del trattato sulla condivisione delle acque dell'Indo (Indus Waters Treaty), il blocco della maggior parte dei visti e l'interruzione del commercio bilaterale. Il Pakistan ha risposte con misure simili, chiudendo anche il proprio spazio aereo ai voli indiani. Inoltre entrambi i paesi hanno ridotto il personale delle rispettive alte commissioni comuni. Gli appelli internazionali a dare un maggior valore al ruolo della diplomazia, riecheggiati anche da molti ufficiali pakistani, non hanno tuttavia trovato soddisfazione. Tanto che il 7 maggio, com'è ormai ampiamente noto, Nuova Delhi ha lanciato una serie d'attacchi aerei sotto il nome di "Operazione Sindoor", ufficialmente contro le strutture dei gruppi terroristici a suo dire presenti sia nella parte di Kashmir controllata dal Pakistan che nella provincia pakistana del Punjab.
Dichiarando d'aver preso di mira i siti operativi di gruppi come Jaish-e-Mohammed e Lashkar-e-Taiba, l'India ha negato che a venir colpite fossero state invece le installazioni militari pakistane; ma in ogni caso la violazione della sovranità era avvenuta, oltretutto a danno di un vicino con cui i rapporti storici non sono mai stati davvero idilliaci. Infatti, com'era a quel punto facilmente prevedibile, Islamabad ha reagito energicamente, denunciando non solo l'uccisione d'altri civili ma a sua volta lanciando anche attacchi aerei e con droni contro le vicini postazioni militari indiane. Gli scontri sono proseguiti anche nei giorni a seguire, sempre accompagnati da reciproche accuse d'aver preso di mira aree civili e siti religiosi.
Piccola nota a margine, non priva d'importanza visti i diversi fornitori dell'una e dell'altra parte: rispetto alle loro guerre del passato, stavolta India e Pakistan si sono confrontate su un terreno nuovo, quello dei droni, ormai più che essenziali in ogni moderno conflitto militare. Ma oltre alla parte tecnica “nuova”, rappresentata dai droni, peraltro già ampiamente sdoganati e collaudati in altri fronti di guerra nel mondo, non va dimenticata neppure quella vecchia, per così dire d'ormai consolidato ruolo. I caccia francesi Rafale, punta d'eccellenza dell'industria militare europea, in dotazione agli indiani, non sono riusciti a reggere il confronto coi rivali cinesi Chengdu J-10, di cui il Pakistan è il primo a far uso. Il Pakistan ha dunque riportato una vittoria a livello di cieli che gli ha consentito di neutralizzare molti degli attacchi indiani, oltre a rivolgere a Nuova Delhi un'umiliazione tale da indurla ad accettare una tregua.
Inevitabili anche gli effetti sulle borse: se da una parte Avic Chengdu Aircraft ha riportato un aumento del valore delle proprie azioni pari al 40%, Dassault Aviation ha accusato perdite per quasi il 10%. Stando a quanto riportato da Islamabad, dei cinque aerei indiani abbattuti tre erano Rafale, uno era un MIG-29 e l'altro un SU-30. Certo, anche il livello d'addestramento dei piloti, d'aggiornamento dei mezzi, e numerosi altri fattori possono concorrere in un risultato o nell'altro; ma intanto il colpo a livello mediatico e diplomatico non è mancato, anche a danno di Parigi che peraltro aveva pregato Nuova Delhi di non usare i Rafale in azioni come quella contro il Pakistan, tali da metterne a repentaglio la reputazione commerciale. Dopotutto, oltre al valore azionario, c'è pure il problema di dover vendere il proprio prodotto, e una cattiva pubblicità data da un abbattimento non è certo un incoraggiamento per i futuri acquirenti di un sofisticato apparato militare, il cui sviluppo è costato enormi investimenti da dover pure recuperare.
Parallelamente agli scontri militari, s'è assistito così ad una rinnovata importanza della diplomazia. Dopo giorni di crescente preoccupazione internazionale per un'eventuale escalation fuori controllo tra due potenze nucleari, il 10 maggio è stata finalmente annunciata la tregua. Di là da come sia stata interpretata e rivendicata da ambo le parti, e dalla paternità che ognuno internazionalmente ha puntato a rivendicare, ciò che importa è che quantomeno regga, per quanto fragile sia. Sono state infatti segnalate alcune violazioni del cessate il fuoco, fatto piuttosto consueto in simili casi, e le misure punitive non militari imposte da entrambi i paesi rimangono comunque in vigore. Soprattutto il blocco del Trattato sulle Acque dell'Indo rappresenta un forte elemento di tensione tra i due paesi, considerando che proprio su tale fiume Islamabad conta per il 70% del suo fabbisogno idrico: facilmente concepibili le inevitabili ricadute non soltanto per i civili, ma anche per l'economia del Pakistan, dall'agricoltura alle attività industriali, fino alla produzione d'energia.
Una simile misura punitiva e sanzionatoria, certamente, viene mantenuta da Nuova Delhi per confidare sul “fattore tempo”, nella convinzione che ciò induca la controparte pakistana a smussare gli orgogli: non a caso il ministro degli Esteri indiano, Jaishankar, ha dichiarato che le relazioni col vicino rimarranno strettamente bilaterali, senza mediazioni esterne sulla questione del Jammu e Kashmir, se non per discutere su più ampia scala la “vacanza del territorio indiano illegalmente occupato dal Pakistan”. Una dichiarazione che pare confermare quanto sostenuto nell'articolo dello scorso 7 maggio: il problema, politico prima che militare, alberga soprattutto nelle fibre del nazionalismo indiano oggi al potere con Modi, tra i suoi politici e militari, al contempo in cerca nel vicino pakistano di un casus belli e di un capro espiatorio per la non facile situazione interna. Dinanzi alle difficoltà, insomma, si torna a giocare la carta del Kashmir.
Certamente la radice di questo problema, dell'ormai atavica questione del Kashmir, risale a come finì il colonialismo britannico nell'India del Secondo Dopoguerra. India e Pakistan si divisero, secondo approssimative suddivisioni di geografia religiosa: da una parte i musulmani, dall'altra gli indù, da una parte Jinnah e dall'altra Nehru. Gandi, dinanzi a quel progetto, ne profetizzò le facili e future difficoltà. La nascita dei due paesi vide fughe e veri propri pogrom di musulmani e indù da una parte e dall'altra, e soprattutto un dramma come quello del Kashmir, un regno dove il locale Rajah scelse d'aderire all'India sebbene al referendum la popolazione avesse votato per stare col Pakistan. Fu subito guerra tra i due paesi, e altre guerre si videro in seguito, tra cui quella del 1971, che vide il Pakistan perdere su spinta indiana la sua provincia orientale, divenuta Bangladesh. Comprensibile, dunque, la profonda e reciproca rivalità, nutrita di forti risentimenti nazionalisti. Insomma, alla base di quella “carta del Kashmir”, che oggi si torna ad agitare, ci sono problemi ancor più antichi, che risalgono addirittura alla genesi dei due paesi in questi ultimi giorni tornati nuovamente in conflitto.