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I dazi americani: una Vittoria di Pirro o una sconfitta a tempo debito?

2025-04-09 13:00

Filippo Bovo

I dazi americani: una Vittoria di Pirro o una sconfitta a tempo debito?

Difficilmente potremmo affrontare la questione dei dazi da questo mese varati dall'Amministrazione Trump senza tener conto anche di tutta un'altra ser

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Difficilmente potremmo affrontare la questione dei dazi da questo mese varati dall'Amministrazione Trump senza tener conto anche di tutta un'altra serie di fattori a latere, forse dal carattere meno economico e commerciale e più politico e strategico. In genere le misure adottate tendono ad essere più gravose verso paesi ed economie che tendenzialmente Washington indica come meno “affidabili” o più “ostili”, competitori non soltanto in senso economico e produttivo ma anche politico, o in ogni caso estranei alla sua influenza. Eppure anche tra costoro non mancano delle curiose eccezioni, che lasciano pensare ad una precisa volontà della Casa Bianca di mandar loro un segnale di temporanea apertura in vista della possibilità di potervi chiarire o ricucire i non facili rapporti attuali. Così pure si può dire per paesi ed economie alleate, dove ugualmente s'è potuta notare una suddivisione non meno brutale da parte di Washington riguardo al trattamento riservato. 

 

Se da un lato verso la Russia non sono stati al momento annunciati dazi, sorprendendo non pochi osservatori, dall'altro verso la Cina i provvedimenti intrapresi da Washington sono stati invece dei più energici, passando da un iniziale 34% ad un successivo 54%, schizzato infine al 104% in vigore dal 9 aprile. L'Unione Europea ha visto dazi del 20%, l'Inghilterra del 10%, la Svizzera addirittura del 31%; Giappone e Corea del Sud hanno subito “attenzioni” rispettivamente del 24 e 25%, mentre per Taiwan sono state addirittura del 32%. Fortemente colpiti i vari paesi dell'ASEAN, seppur in quantitativo variabile, col 49% della Cambogia, il 46% del Vietnam, il 36% della Thailandia e il 32% dell'Indonesia, fino al 26% dell'India. Anche Israele, sul cui peso negli affari interni americani in pochi dubiterebbero, ha ricevuto la sua parte, pari al 17%. Misure massicce, nella loro variabilità, sono state assunte anche verso tutti i paesi africani, dal 10% per Egitto e Marocco, condiviso anche da molti altri della fascia tra Corno d'Africa e Sahel, dall'Etiopia al Senegal, fino al 30 e 31% per Algeria e Libia, per arrivare al 21% della Namibia, al 32% dell'Angola, al 47% del Magadascar e addirittura al 50% del Lesotho, uno dei più piccoli del Continente. 

 

Le reazioni dei paesi interessati, 180 in totale, sono variate da contromisure di pari portata ad altre ancor più aspre, talvolta con percentuali davvero eclatanti. Il Giappone e la Corea del Sud reagiscono alle misure del 24 e del 25% col 46 e il 50% rispettivamente; la Cina col 67%, sebbene il nuovo ritocco americano al 104% comporterà inevitabilmente nuove reazioni; la Thailandia e il Vietnam, al 36 e 46%, col 72 e il 90%, la Cambogia al 49% col 97%, e via dicendo con casi sempre più eclatanti. Non sono mancate neppure le risposte ironiche: dopotutto tra i paesi colpiti ce ne sono pur sempre alcuni che con gli Stati Uniti hanno rapporti commerciali quantitativamente marginali. Tuttavia per molti paesi l'entità del danno potrebbe essere piuttosto seria, anche in virtù del loro rapporto economico e commerciale con Washington: quelli dell'Unione Europea, per esempio, valutano contromisure del 25%, per un'entità di 22 miliardi di euro, pur continuando ad invocare un “commercio libero ed equo”. Forti soprattutto le preoccupazioni italiane, in particolare per quanto riguarda l'agroalimentare ed in particolar modo l'export dei vini, sebbene il governo miri soprattutto al dialogo per indurre la Casa Bianca a rivedere almeno parte della sua condotta. 

 

Il Canada, che insieme al Messico aveva già subito delle prime misure da parte della Casa Bianca, ha annunciato dazi per varie tipologie d'autovetture prodotte negli Stati Uniti, mentre le nazioni del Sud Est Asiatico già parlano di cercare nuovi mercati e stabilire dispositivi di mitigazione volti al supporto dei propri esportatori. In sostanza, paesi come Vietnam, Cambogia, Thailandia, e altri partner dell'ASEAN, puntano ad una maggior integrazione con le altre economie globalizzate, a cui già sono fortemente vincolati, dall'Unione Europea alla Cina, e a rafforzare pure le macrointese regionali, sulla scorta di quanto visto pure negli scorsi giorni con l'intesa tra Cina, Giappone e Corea del Sud che ha certamente sorpreso chi era rimasto a rapporti più tesi tra Pechino e le altre due capitali. Le nazioni africane, in percentuali variabili fortemente segnate dai nuovi dazi americani, ancor più guardano all'incremento del loro rapporto con gli altri mercati per salvaguardare il loro percorso verso una maggior sicurezza economica: la sospensione dell'USAID, agenzia certamente controversa nei suoi bilanci politici, ha già costituito in molti casi una mezza dichiarazione di guerra soprattutto ad alcune delle loro economie, ma al tempo stesso è suonata come un avviso a spingere verso migliori e nuove forme di cooperazione sia con l'estero che continentali, secondo principi autenticamente win-win.

 

Anche le borse mondiali non hanno ben digerito l'annuncio americano, con forti crolli generalizzati. A Wall Street si sono visti grossi ribassi, con il Dow Jones, il Nasdaq e l'S&P 500 in marcato calo; addirittura, il Nasdaq è entrato in bear market, mercato ribassista, situazione sempre assai temuta da molti investitori ed intermediari. Milano e Parigi hanno subito cali significativi, così come Francoforte e Londra, con le borse europee che hanno continuato a perdere anche nella giornata successiva, bruciando centinaia di miliardi di euro. Anche i mercati asiatici hanno subito forti perdite, con Tokyo, Hong Kong, Seul e Taiwan in forte ribasso. In generale soltanto adesso si comincia a respirare una cauta e positiva risalita, dopo i duri tonfi del 7 aprile. 
 

Se nel caso russo la probabilmente momentanea esenzione dai dazi può leggersi come un “favore” dovuto alle attuali trattative di pace in Ucraina, che tra alti e bassi stanno pur sempre proseguendo, vedendo comunque crescenti difficoltà per l'Amministrazione americana a chiudere il conflitto in tempi più brevi del previsto, nel caso cinese il 104% suona invece come una vera e propria dichiarazione di guerra. La tesi è supportata anche da altre considerazioni, d'ordine pratico e politico: a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni che ne sono derivate, il commercio tra Stati Uniti e Russia è oggi piuttosto contenuto, certamente non paragonabile al passato. Per il resto, grava la minaccia americana di colpire con dazi secondari quei paesi che acquistino petrolio, gas, uranio ed altre materie prime da Mosca, con una proposta bipartisan al Senato che vedrebbe addirittura l'imposizione di dazi al 500%. Infine, la guerra commerciale scatenata da Washington con altri paesi, seppur indirettamente, andrebbe sempre a colpire tra le altre anche l'economia russa, costituendo pur sempre un “dazio ombra”. Insomma, gli Stati Uniti pensano di trattare con Mosca sventolando qualche possibile e temporanea concessione, ma tenendo pur sempre la pistola bene in vista sul tavolo: se ciò possa funzionare, considerando pure i risultati sin qui raggiunti dalle precedenti Amministrazioni, è ancora tutto da vedere. 

 

E' però verso la Cina che Washington ha intrapreso la linea più risoluta. Non si tratta soltanto di una dichiarazione di guerra in senso economico, ma pure politico, tra l'altro accompagnata da considerazioni palesemente provocatorie come quella del Vicepresidente americano Vance, che ha addirittura definito i lavoratori cinesi dei paesans: non certo un approccio dei più diplomatici. Ai primi dazi Pechino ha reagito con contromisure del 37%, ma anche con un forte appello al dialogo e al rispetto di quanto nel frattempo raccomandato dal WTO, ma pian piano i vari botta e risposta tra le due capitali hanno visto inasprimenti al 54 e 84% rispettivamente, confermando la pervicacia americana a voler “trattare con tutti tranne con la Cina”. Ora però abbiamo persino lo sbalorditivo 104% che scuote ancor più i mercati, e che suscita forte reazioni anche presso molte altre cancellerie: la guerra commerciale, che a vario titolo riguarda ormai un po' tutti, costringe a doversi adattare a scenari nuovi, ai quali in molti nel mondo erano fino ad oggi ancora in buona parte impreparati. E' inevitabile pensare che entrino in gioco anche dei retroscena d'ordine più geopolitico, considerando la forte integrazione sia americana che cinese nell'economia globale: se gli Stati Uniti intendono procedere con una propria “deglobalizzazione”, letteralmente staccandosi da molto del commercio planetario e lanciando dei chiari aut aut a molte grandi compagnie a trasferirvi le loro produzioni, così da non perderne l'importante mercato, è anche vero che nel lungo termine una simile strategia “neo-isolazionista” potrebbe comportare più danni che benefici. 

 

Se nel breve e medio periodo l'azione degli Stati Uniti potrebbe suonare come molto muscolare e per certi versi persino redditizia, nel lungo periodo invece l'effetto boomerang potrebbe infatti rivelarsi gravemente controproducente per Washington, accelerando ad esempio l'incedere di spettri assai temuti come la dedollarizzazione e una forte perdita di potere sugli equilibri globali. Dopotutto, uno dei primi criteri della centralità del dollaro, negli equilibri economici internazionali, derivava proprio dal forte disavanzo commerciale tra gli Stati Uniti e il resto del mondo: colpendo l'uno, si colpisce anche l'altro. Sempre più in bilico tra una forzata riduzione a grande attore regionale e il desiderio di non rinunciare al proprio vecchio status di superpotenza globale, gli Stati Uniti si troverebbero in crescente difficoltà a portare avanti, ad esempio, la loro politica di contenimento di Pechino sin dal Pacifico. Paradossalmente, si ritroverebbero sempre più in difficoltà persino ad attuare quel contenimento anche sulle loro stesse coste, per giunta a causa di misure adottate di propria sponte. Insomma, se oggi tanti negli Stati Uniti brindano ai dazi, coprendo gli avvisi di quanti invitano invece ad approcci più saggi, resta comunque più attuale che mai il monito per cui quella della Casa Bianca potrebbe davvero sostanziarsi, assai prima del previsto, in una “vittoria di Pirro”, una “sconfitta a tempo debito”. Washington potrebbe parzialmente migliorare i propri conti interni, senza tuttavia centrare l'obiettivo di ricostruirsi una piena economia reale, al contempo accelerando pure la fine del suo status di superpotenza globale, indubbiamente sempre più duro da sostenere per il nuovo “sistema paese” americano. 
 

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