
Ogni epoca ha avuto i suoi perseguitati: quando i Nativi d'America, quando i Greci, quando gli Armeni, quando i Mori, quando gli Ebrei, ed altri ancora. Ora Trump e Netanyahu rinnovano la piaga della persecuzione dei Palestinesi, parlando di deportarne un milione e mezzo da Gaza. E' passato un secolo per nulla: quasi cent'anni fa inglesi e tedeschi, con Hitler, parlavano di un insediamento per gli Ebrei, magari in Uganda o in Madagascar, o ancora in Kenya. In Europa erano indesiderati. I sovietici dal canto loro rilanciavano con una repubblica degli Ebrei in Siberia (esiste ancora, quasi disabitata), dopo averne valutata una in Crimea (non vi fu fatta, il piano saltò con le grandi purghe degli Anni '30). Era sempre la solita logica delle "riserve indiane". E ora tocca ai Palestinesi.
L'Amministrazione Trump sta esercitando pressioni su Egitto e Giordania affinché accolgano la popolazione di Gaza, per stime d'almeno un milione e mezzo di persone anche se in realtà sarebbero ben di più, così da "ripulire" tutto il territorio e poter a quel punto dire d'aver definitivamente “risolto il problema”. Praticamente Trump vorrebbe rispolverare la vecchia soluzione cosiddetta "giordano-egiziana", alternativa a quella dei due Stati e in questo caso funzionale ad evitarla, ma con una differenza sostanziale: in quella soluzione Egitto e Giordania annettevano nuovamente Gaza e Cisgiordania, mentre stavolta dovrebbero prenderne soltanto la popolazione. Gli Stati Uniti, con Israele, mirano a far di Gaza un loro asset strategico, ed intuibilmente dopo sarebbe la volta pure della Cisgiordania. Il punto, però, è che Egitto e Giordania hanno già al loro interno un numero esagerato di profughi e sfollati, anche ma non soltanto palestinesi, e trasferirvene altre centinaia di migliaia oltre che un arbitrio internazionale comporterebbe pure l'avvio di un nuovo disastro umanitario. In Giordania i profughi sono più di due milioni, in Egitto addirittura più di nove milioni. E' da notare come questa strategia di Washington e Tel Aviv venga portata avanti anche differenziando il trattamento, e non per caso, verso i due interlocutori mediorientali: all'Egitto non sospendendo, almeno per il momento, gli aiuti militari ed umanitari, mentre alla Giordania che vi dipende in misura non certo minore sì. Si danno o si sospendono gli aiuti, in questa nuova fase politica inauguratasi con la nuova Amministrazione americana, secondo precisi calcoli politici, che in questo caso nonostante le apparenti differenze convergono verso il medesimo obiettivo.
Nel frattempo la tregua per Gaza rischia d'infrangersi aprendo una nuova fase in un conflitto che, non soltanto in Palestina, è tutt'altro che spento. Lo scambio degli ostaggi avviene con frequenti singhiozzi, non di rado anche con gravi provocazioni reciproche: non è remoto il sospetto che si miri, in questo modo, a far saltare il tavolo. Qualcuno s'era preso troppo frettolosamente il merito della pace, ma i fatti adesso lo smentiscono: Hamas non è stata debellata e i suoi uomini pattugliano la Striscia ostentando chiara e rafforzata potenza, e se ha sottoscritto un accordo di tregua con Israele non è stato certo per timore di una rappresaglia americana. Insomma, proprio come nel caso dell'Ucraina, anche per quanto riguarda il Medio Oriente non è inventandosi l'alibi di una sostanziale vittoria che gli Stati Uniti possono dire d'aver vinto la guerra davvero. Con tante sparate, infatti, Trump cerca di coprire quelle che sono due grandi disfatte; certo, ereditate dai suoi predecessori, ma in ogni caso del tutto irrimediabili. Una è la guerra in Palestina, dove pur con l'assistenza americana Israele non è riuscita a prevalere su Hamas e su Hezbollah, che di là da tutti i proclami retorici sono più forti e popolari di prima, a tacer poi degli Houthi che continuano a bersagliarne gli obiettivi; e l'altra quella in Ucraina, dove ormai Mosca sta persino ottenendo molto più di quanto inizialmente preventivato, e non certo perché così concessole da Washington o dalla NATO, ma semplicemente perché del tutto in grado di prenderselo da sé senza che nessuno possa muoverle alcuna contraddizione.
Cambiare le carte in tavola, per il nuovo Presidente americano, appare dunque l'unica via percorribile: da una parte pensando di tagliare la testa al toro in Palestina con un trasferimento forzato e di massa dei civili nel resto del Medio Oriente, così da far di Gaza un dominium del tutto israelo-americano; e dall'altra ergendosi con la Russia al medesimo rango di deus ex machina che chiude rapidamente il conflitto concedendole cose che non può concedere, perché anche in questo caso privo della capacità di promettere o dare alcunché, per prendersi in cambio altre cose ancora su cui non ha del pari alcuna voce in capitolo. Ma, appunto, è soltanto un buttarla in caciara che testimonia le tante difficoltà di una superpotenza in declino, costretta a delle teatrali fughe in avanti per evadere dal dramma del reale. Del resto, in molte trattative si è soliti partire con prezzi esageratamente alti per poter contrattare senza rimetterci troppo; ma qui il problema, per Washington, è che si va a contrattare su elementi che finora ha considerato come suoi interessi strategici in Europa e Medio Oriente, oltre che sul suo stesso ruolo di superpotenza per com'è stata finora conosciuta. Un'altra prossima e provocatoria mossa, o fuga in avanti che dir si voglia, potrebbe risiedere come già accennammo in un riconoscimento dell'indipendenza della regione somala del Somaliland, proprio davanti allo Yemen guidato dagli Houthi e ad un passo dall'accesso del Mar Rosso, e di cui nuovamente s'è tornato a parlare con le recenti pressioni esercitate dalla destra repubblicana sulla nuova Amministrazione.
In fondo dietro a tutti questi colpi di teatro, a tutta questa caciara, vi è già in corso di delineamento un sondare il terreno teso a trattare gli equilibri del domani, per quanto temporanei possano essere: l'intenzione non è di rispettarli facendone un punto d'arrivo, ma semmai di sovvertirli allorché ciò si renderà possibile e necessario per renderli un nuovo punto di partenza. Chi ha perso vuol sì la rivincita, chiudendo le danze con la Russia e a spese dell'Europa, prima che sia troppo tardi; e del pari facendo lo stessa cosa con quella parte di Medio Oriente uscita vincente dal confronto con Israele, prima che il suo vantaggio sia tale da scongiurare la possibilità di mettervi in atto i progetti residui e futuri; ma per poterlo fare, così da prepararsi al vero confronto futuro, quello con la Cina, che non sarà solamente sul versante dell'Indo-Pacifico, ha bisogno di garantirsi prima dei punti fermi, siano quelli che siano. Si chiude una fase dei conflitti in corso, in attesa di aprirne a breve di altre. Parlavamo di Gaza e del Somaliland, che gli è ben più a sud, ed ecco spuntare una delle poste in gioco: la Via del Cotone, altrimenti nota come Via dell'Oro, che dall'India attraverso il Medio Oriente e l'Africa Orientale e Settentrionale giungerebbe infine in Europa e negli Stati Uniti.
A prima vista potrebbe apparire un progetto assai visionario, e soprattutto molto tardivo, oltreché gravato da passaggi geografici piuttosto arditi: non solo vi è il già accennato Somaliland, ma addirittura il Canale Ben Gurion (caro ad Israele e da costruirsi proprio nel Sinai in buona parte egiziano oltre che sotto l'autorità di Gaza: e questo spiega perché Washington e Tel Aviv intendano metterla da parte) oltre ai Corridoi di Lobito e Afro-Caraibico nel cuore dell'Africa, essenziali a loro volta per gli Stati Uniti in termini d'energia e materie prime. Non parliamo poi dei tempi e costi di realizzazione, non proprio dei più umani. Ma, nell'ottica americana di operare un progressivo e completo spin-off dall'interscambio con la Cina, e di far concorrenza alla Belt and Road Inititiative (BRI) fino addirittura a sconfiggerla strategicamente, evidentemente gli elevati costi passano in secondo. Battere la BRI, tuttavia, sarà alquanto utopico, considerato che è attiva ormai dal 2013 legando tra loro oltre 150 paesi al mondo.
Le proposte americane di sottrarre Gaza ai palestinesi, spostando quest'ultimi nel resto del Medio Oriente, trova in ogni caso comprensibilmente unitari dinieghi da tutte le parti, anche in quei paesi arabi moderati che finora rappresentavano i più affidabili interlocutori ed alleati di Washington e Tel Aviv. Nulla di cui sorprendersi, se pensiamo che il Medio Oriente si stava già ricompattando prima del 7 ottobre 2023: si pensi agli accordi patrocinati dalla diplomazia cinese che, riavvicinando Iran e Arabia Saudita, sanarono la faglia tra Sciiti e Sunniti proprio nella primavera di quell'anno. La guerra ad oltranza avviata da Israele dopo il 7 ottobre 2023, equivalente dell'11/9 americano, puntava proprio a ricondurre il Medio Oriente alle condizioni storiche e politiche antecedenti a quell'accordo, ma ha fallito del tutto, rafforzando ancor più quello status quo che mirava ad indebolire. Tolti alcuni attori più multivettoriali che realmente allineati a Washington e Tel Aviv, come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain o il Qatar, Stati Uniti ed Israele non hanno altri veri interlocutori nella regione. Mentre nomi su cui un tempo per antonomasia avrebbero potuto sempre contare, come Turchia ed Arabia Saudita, o addirittura il Kuwait, la Giordania e l'Egitto, guardano alle loro strane proposte di “pace” con la stessa indignazione che può avere Teheran, o ancora che possono avere i grandi emergenti del mondo, come la Cina, la Russia, il Brasile o il Sudafrica.