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La tregua per Gaza, frutto del martirio e dei nuovi equilibri in Medio Oriente

2025-01-16 16:00

Filippo Bovo

La tregua per Gaza, frutto del martirio e dei nuovi equilibri in Medio Oriente

La notizia del raggiunto accordo di tregua tra Israele ed Hamas è stata accolta dal grande giubilo dalla popolazione di Gaza, scesa in strada a festeg

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La notizia del raggiunto accordo di tregua tra Israele ed Hamas è stata accolta dal grande giubilo dalla popolazione di Gaza, scesa in strada a festeggiare ben più che il semplice ritorno ad una “normalità” mai davvero esistita. Nel grande entusiasmo generale si può infatti avvertire la speranza, certo azzardata ma oltremodo comprensibile, che il grande sacrificio sin qui vissuto possa condurre a qualcosa d'assai più importante di un graduale ritorno alle condizioni di vita antecedenti al 7 ottobre 2023. Grandi ed altrettanto partecipate manifestazioni si sono viste anche nel resto della regione, dalla Giordania al Marocco, dalla Siria alla Tunisia, dallo Yemen alla Mauritania. Se fatto rispettare, l'accordo tra Israele ed Hamas, come d'altronde pure quello con Hezbollah in Libano, potrà veramente dare ai palestinesi e ai loro sostenitori ed alleati risultati d'incontestabile storicità. Non a caso è proprio sulla possibilità di un suo pieno rispetto, soprattutto da parte israeliana, che pesano ora numerose incognite: già in Libano si nota come la tregua sia costantemente scossa da continue provocazioni militari tese a sabotarla, e non diversamente avviene in questo momento anche a Gaza. Le divisioni in seno ai vertici israeliani, coi settori più reazionari ed oltranzisti decisi a non chiudere anzitempo il conflitto, vedono Gerusalemme in balia di un'imprevedibile ed inaffidabile fluidità politica.

 

Basterebbe già soltanto esaminare i vari punti dell'accordo per comprendere tutta la riluttanza di quei settori governativi e militari ad accettarlo, proprio perché vi vedrebbero ben più di una loro sconfitta vitale: 1) Completo ritiro delle forze israeliane da tutte le aree della Striscia di Gaza e loro ritorno ai confini prebellici; 2) Riapertura del valico di Rafah anche in questo caso col completo ritiro delle forze israeliane dall'area; 3) Obbligo per Israele di facilitare gli spostamenti all'estero dei feriti onde ricevano cure mediche; 4) Analogamente, di consentire l'ingresso giornaliero di 600 camion d'aiuti, come da protocollo umanitario sostenuto dal Qatar; 5) Ancora, di facilitare l'ingresso di 200mila tende e 60mila roulotte per fornire un riparo immediato; 6) Scambio di prigionieri su larga scala, incluso il rilascio di mille prigionieri da Gaza e di centinaia di detenuti che stanno scontando lunghe pene; 7) Obbligo per Israele di rilasciare tutte le donne e i bambini di età inferiore ai 19 anni dalle sue prigioni; 8) Graduale ritiro delle forze israeliane dal corridoio di Netzarim e dalla linea di Filadelfia; 9) Permesso per i residenti sfollati di tornare alle proprie case, con libertà di movimento garantita in tutta la Striscia di Gaza; 10) Abbandono dello spazio aereo di Gaza per 8-10 ore al giorno degli aerei nemici; 11) Ripristino di tutti gli ospedali della Striscia di Gaza, con contemporanea autorizzazione all'ingresso di ospedali da campo, attrezzature mediche e squadre mediche.
 

La prima fase d'implementazione dell'accordo, della durata di sei settimane, comporterebbe il rilascio di 33 prigionieri israeliani, sia vivi che morti, ed il ritorno immediato degli sfollati dalla parte meridionale di Gaza a quella settentrionale, facilitato dal contemporaneo ritiro delle forze israeliane da al-Rashid Street al corridoio di Netzarim. Le fasi successive prevederebbero il rilascio dei restanti 66 prigionieri detenuti dalle altre fazioni della resistenza palestinese, che analogamente hanno sottoscritto l'accordo. Se l'accordo avesse successo, il graduale cessate il fuoco potrebbe allora concludere oltre un anno di negoziati altalenanti portando oltretutto al più grande rilascio di prigionieri israeliani dalle prime fasi della guerra, allorché Hamas consegnò alle autorità israeliane circa metà dei suoi prigionieri in cambio di 240 detenuti palestinesi. In cambio dei 33 dei 98 ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas, Israele rilascerebbe mille detenuti palestinesi, in un arco di tempo stimato dalle prime fonti in circa una sessantina di giorni. Tra i 33 vi sarebbero anche delle soldatesse israeliane, ognuna delle quali verrebbe rilasciata in cambio di 50 prigionieri palestinesi, cominciando da personalità di spicco della Resistenza, protagoniste della prima come della seconda Intifada. Proprio per questo però, come già dicevamo, è difficile immaginare che non possano avvenire tentativi da parte soprattutto israeliana di sabotaggio, alla stregua di quanto giornalmente vediamo in Libano.

 

Lo scalpore destato dal raggiungimento di un tale accordo, al quale comunque già da tempo si lavorava, ha portato ad attribuire un ruolo anche alla nuova Amministrazione repubblicana USA e soprattutto al suo Presidente, Donald Trump, a sorpresa apparsi come alleati potenzialmente molto più critici per Netanyahu di quanto fino a poco tempo fosse dato per garantito. Ed in effetti è vero che tra Trump e Netanyahu i rapporti non siano ad oggi proprio così calorosi come ci si sarebbe inizialmente potuti aspettare: dopo il loro incontro di qualche mese fa nella residenza personale del nuovo Presidente americano, a Mar-a-Lago, non sono seguiti tra i due altri contatti significativi. Addirittura alla cerimonia d'insediamento il premier israeliano non è stato menzionato tra gli invitati, al pari dell'ucraino Zelensky, anche in questo caso suscitando ricche analogie e retroletture di gossip politico. D'altronde Netanyahu per tante ragioni è una patata bollente anche per l'Amministrazione uscente, che nello spingere affinché si facilitasse un accordo di tregua per Gaza ha trovato una facile sintonia con quella a breve destinata a succedergli: per Biden era essenziale concludere il proprio mandato salvando le apparenze, ovvero potendo presentare il merito d'aver fermato la guerra in Palestina e dato nuove speranze alla pace, esattamente come per Trump è oggi un ottimo accredito poter entrare alla Casa Bianca attribuendosi il merito d'esser riuscito ad arrestare il conflitto in Medio Oriente già soltanto per via della sua immagine di temibilità e di “uomo del fare”. 

 

Come già abbiamo descritto anche in altre occasioni, gli USA, davanti ad un un conflitto in cui non sempre i propri interessi in Medio Oriente risultavano coincidere con quelli dell'alleato israeliano, miravano a fornirgli soprattutto un supporto esterno e non certo a lasciarsene trascinare in un intervento diretto, sul campo, che avrebbe implicato il sacrificio di quegli stessi interessi in nome di un più cieco "muoia Sansone con tutti i filistei", a cui Netanyahu era (e tuttora è) disposto pur di preservare se stesso di là dal proprio paese. Peraltro un intervento diretto statunitense, in presenza d'alleati come quelli sunniti che non intendono rompere i propri rapporti di "neutralità costruttiva" con l'Iran e gli sciiti, e per tale ragione nemmeno a concedere a Washington e Gerusalemme l'uso delle basi militari sul proprio territorio, significherebbe portare il Medio Oriente a ferro e fuoco, per via di tutte le ovvie conseguenze del caso. Abbiamo ricordato in numerose occasioni quanto la riappacificazione tra Iran ed Arabia Saudita, e a cascata tra sciiti e sunniti, siglata dalla mediazione cinese nella primavera del 2023 abbia di fatto portato al superamento anche dei precedenti e mai implementati Accordi di Abramo, che miravano invece a rendere i paesi sunniti allineati e funzionali ad Israele in funzione chiaramente anti-iraniana. Di conseguenza, dinanzi ad un tale mutamento d'equilibri, risulterebbe ben più difficile forzare la mano per poter effettuare in Medio Oriente, dalla Palestina all'Iran, una rappresaglia o un rialzo della posta in termini bellici, tale da trascinare nella guerra totale l'intera regione. Per giunta le conseguenze che deriverebbero da un simile ed eventuale scenario, con le immediate reazioni iraniane e yemenite sulle monarchie del Golfo, non si fermerebbero ovviamente coi loro effetti alla sola regione, e non solo da un punto di vista geopolitico o strategico, ma anche economico ed energetico, e via dicendo. Insomma, se v'è stato un ruolo di Trump, sopravvalutato o meno che sia, non è stato certo dettato soltanto da un logico affarismo ma anche da un comprensibile realismo: anche per gli USA è oggi più che mai essenziale distinguere tra Israele, alleato strategico, e Netanyahu, suo premier politicamente sempre più scomodo e “bruciato”. L'alleato dunque è Israele, non Netanyahu: e nessuno vorrebbe mai davvero compromettersi per lui.

 

Anche altri fattori hanno chiaramente facilitato il raggiungimento dell'accordo di tregua a Gaza, proprio com'è stato per quello in Libano e per il suo pur precario mantenimento: ad esempio le incognite legate alla montante tensione con tutti gli altri grandi attori regionali, come la Turchia in crescente sinergia strategica con l'Iran e con la Russia, a preludio di possibili "salti di qualità" in caso di maggiori escalation che un Israele "spompato" da questi oltre 14 mesi non sarebbe a questo punto probabilmente in grado di gestire. Anche questa è una buona ragione per non mandare l'intero Medio Oriente in fiamme, e non a dare troppo spago a chi lo voglia fare. Ma soprattutto c'è anche un altro fattore ancora, dinanzi al quale non si sfugge, quantunque molti nostri "analisti in doppiopetto" cerchino di farlo in tutti i modi: ovvero che, dopo tutti questi drammatici mesi di guerra, la Resistenza, che si tratti di Hamas o di Hezbollah, non sia stata affatto piegata da Israele. In oltre 14 mesi di conflitto Israele non è riuscita a debellarle, al contrario rafforzandole per solidarietà, appoggi e reclutamenti guadagnati: toccherà a loro ora, mentre qua se ne parlerà sempre meno, passare all'incasso attraverso il tavolo della politica, e sapranno indubbiamente come farlo. Un aspetto che, ricordammo già mesi fa, Israele e più in generale tutto l'Occidente faticano a comprendere o addirittura ignorano è il significato del martirio: più martiri si fanno, più grande e temibile sarà poi il proprio nemico. Non l'hanno capito, e la sconfitta de facto in questo conflitto ne è una delle prime, ma non sola od unica, conseguenza.
 

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