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Diario siriano. Distrutto il passato, disperato il presente, quale il futuro?

2024-12-11 17:02

Filippo Bovo

Diario siriano. Distrutto il passato, disperato il presente, quale il futuro?

In sole 48 ore dall'entrata di Hay'at Tahrir al-Sham (HTS) a Damasco, avvenuta lo scorso 8 dicembre, gli attacchi aerei di Israele su strutture milita

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In sole 48 ore dall'entrata di Hay'at Tahrir al-Sham (HTS) a Damasco, avvenuta lo scorso 8 dicembre, gli attacchi aerei di Israele su strutture militari e difensive siriane (come sedi di comando, arsenali e depositi di munizioni, apparati radar e di sicurezza, aerei e missili balistici, bunker e depositi di carburante) e civili e governative (come sedi ministeriali, scientifiche e culturali tra cui anche università e centri di ricerca, aree museali ed archeologiche, oltre fabbriche e centri produttivi, porti ed aeroporti, ed altri collegamenti), hanno grossomodo pareggiato per numero quelli compiuti sul paese in tutto l'anno precedente. In sostanza, col consenso del leader jihadista al-Jawlani, Israele è dedita a smantellare tutto l'apparato dell'ormai disciolto Esercito Arabo Siriano, ma anche quelle strutture pubbliche e civili e persino quei patrimoni storici e culturali che potrebbero permettere alla futura Siria di potersi lentamente riprendere un indomani, oltreché difendersi e gestire il proprio ordine interno nell'immediato, così da poter ritornar poi alla vita civile e garantire di che vivere ai propri figli. Israele mira dunque non soltanto a mettere in sicurezza le sue nuove conquiste nel Golan, che sta infatti espandendo approfittando del caos siriano, ma pure a trasformare la Siria in uno "Stato fallito", del tutto impossibilitato a riprendersi e a sopravvivere senza la costante elemosina altrui: inutile dire che non potrà mai esser più, almeno per molto tempo, un ostacolo o una minaccia alle sue strategie d'espansione nella regione; e che, del pari, sarà suo malgrado anche una vasta "terra di nessuno" utile a separar geograficamente Israele dagli altri suoi avversari regionali come la Turchia o l'Iraq, a tacer poi dell'ancor più lontano e scollegato Iran. 

 

A ceneri del regime baathista ancora caldo, Netanyahu s'è infatti recato presso il confine siriano dichiarando che l'Accordo sul Disimpegno tra Israele e Siria del 1974, firmato dopo la Guerra dello Yom Kippur del 1973 e volto a regolare i confini tra i due paesi nell'area del Golan, non ha oggi più alcun valore visto il sopraggiunto ritiro delle truppe dell'Esercito Arabo Siriano, discioltosi nel nulla nelle ore tra il 7 e l'8 dicembre. Questo storico accordo regolava un'area assai vasta e strategica, in cui svetta il Monte Hermon, a metà tra i confini israeliano, siriano e libanese, dalle cui sommità è possibile controllare tutti i trasporti, anche di truppe, nelle zone sottostanti, e monitorare via radar l'intero Libano ponendo serie ipotetiche anche sulla sua sicurezza nazionale. Ma, oltre a questo, vi si possono pure gestire i flussi d'acqua diretti alle sottostanti vallate, dal Giordano al Mar di Galilea, garantendo così ad Israele un ulteriore predominio sulle risorse idriche di tutta la regione, a cui notoriamente è da sempre interessata e che costituiscono un'altra formidabile arma negoziale. Ormai l'Accordo non ha più valore, ha sostenuto Netanyahu, e le sue truppe hanno così prontamente provveduto ad occupare tutta l'area, partendo proprio dal Monte Hermon, e tutt'altro che a titolo solo temporaneo come rassicurato da certi nostri TG: al contrario, il premier israeliano ha esplicitamente dichiarato che Israele se la terrà ben stretta, e che mai l'abbandonerà. L'Accordo di Disimpegno era stato finora il più longevo trattato mai esistito tra Israele ed un paese arabo, a dimostrazione che la Siria costituiva pur sempre un baluardo non facile da arginare. Ma adesso questo baluardo è stato vinto, poiché non soltanto a Damasco non v'è più un regime ostile, e le aree di Disimpegno col Monte Hermon sono finalmente state occupate per venir presto annesse, ma anche tutto quel che potrebbe un indomani render la futura Siria nuovamente un baluardo eliminato: come già dicevamo, arsenali, depositi di munizioni, aerei, navi, ecc, ma anche strutture scientifiche e culturali, ministeriali e governative, fabbriche, porti ed aeroporti, ed altre varie infrastrutture. Trecento sono finora stati i raid israeliani e cento quelli americani compiuti in meno di 48 ore, a riprova del grande zelo profuso in tale obiettivo, di là dal volerlo poi nascondere dietro le scuse ufficiali di voler sottrarre dei pericolosi armamenti ai fondamentalisti o prevenire una nuova insorgenza dell'ISIS: per l'esattezza, bombardando magari scuole od ospedali. 

 

Penetrando nel paese per arrivare quasi a venti chilometri da Damasco, e distruggendone ogni vitale infrastruttura economica, civile e difensiva, Israele di concerto col suo alleato americano pone così le basi per la frammentazione della Siria, calpestando così tutti gli appelli giunti dal resto del mondo affinché se ne garantiscano la sovranità, l'unità e l'integrità nazionale. La frammentazione siriana può rappresentare un detonatore in grado d'accendere una maggior frammentazione in tutto il Mashreq, dal Libano all'Iraq fino anche alla Giordania o alla Turchia, con influenze negative anche nel vicino Caucaso e nel resto dell'Asia Centrale. Non è un mistero che tra le forze di al-Qaeda ed ISIS che hanno accompagnato HTS nella sua marcia su Damasco, figurino anche forze islamo-fondamentaliste provenienti proprio dal Caucaso e dall'Asia Centrale: dal Partito Islamico del Turkestan, che unisce molti miliziani soprattutto uyguri, dello Xinjiang, oltre a cittadini dei paesi limitrofi come uzbeki, kirghizi o tagiki, alla formazione nota come Potente Caucaso, che ha tra i suoi effettivi soprattutto ceceni, daghestani e d'altre aree musulmane del Caucaso russo. La loro esperienza militare, già provata negli anni passati in quei teatri e poi fortificatisi anche in altri scontri successivi, dalle Guerre Balcaniche alle Primavere Arabe, ha conosciuto ulteriori perfezionamenti nel contemporaneo conflitto civile siriano, e la possibilità che mirino nuovamente a riversarla anche sulle proprie terre d'origine non appare certo tanto remota od improbabile. Alimentare la frammentazione nel Medio Oriente, e di riflesso anche in tutto il più vasto entroterra eurasiatico, è peraltro tra le strategie del "Nuovo Secolo Americano": proprio un tale scenario, infatti, rallenterebbe o scongiurerebbe la penetrazione politica ed economica in quelle terre da parte delle nuove potenze emergenti o a seconda dei casi riemergenti, come la Russia o la Cina, o ancora l'India, l'Iran, il Kazakistan o il Pakistan, tenendoli in scacco a vantaggio della vecchia superpotenza americana decisa a vender cara la pelle.
 

Nel frattempo, quanto rimane della Siria, in modo tanto apocalittico rapidamente rasa al suolo, è affidato a “mani amiche” come quelle di Hay'at Tahrir al-Sham, che al pari delle altre forze takfire e wahabite affiliate ad al-Qaeda e ad ISIS è peraltro proprio organizzata, stipendiata e diretta dall'intelligence di Stati Uniti, Inghilterra ed Israele. Il resto del paese, invece, rimane ancora suddiviso a nord tra i curdi del Syrian Defense Force (SDF), analogamente eterodiretti dagli Stati Uniti, e le forze del Syrian National Army (SNA), vicine invece alla Turchia e nel tempo maggiormente avvicinatesi anche agli altri partner di Astana: è proprio tra queste due forze, SDF e SNA, che si son visti fin dalla caduta di Damasco e dalla sua conquista da parte di HTS i primi scontri, mentre le unità russe intanto abbandonavano i loro presidi nella provincia di Aleppo e nel Rojava curdo per far ritorno nelle proprie basi costiere. La prossima puntata del conflitto civile siriano, ben lungi dallo spegnersi, avrà proprio nello scontro tra queste due forze il suo primo focolaio, non tardando a tempo debito a riflettersi anche sul resto del paese e sui suoi oggi tanto frammentati equilibri; inevitabilmente contribuendo pure, vada come vada, al processo di frammentazione del paese e della regione, che i settori strategici americani ed israeliani hanno tanto a cuore. Dopotutto il caos e l'instabilità permanenti sono anche un buon pretesto per rimanere presenti su un territorio, ufficialmente per garantirvi l'ordine, vita natural durante; e sappiamo più che bene che le forze militari americane, per esempio, sono attestate nel nordest della Siria, tenendone sotto sequestro i siti petroliferi da cui pompano greggio a più non posso, proprio come fanno anche nel confinante Kurdistan iracheno. Del resto anche la strumentalizzazione delle aspirazioni d'autodeterminazione curde e delle loro forze combattenti rappresenta sotto quest'aspetto una storica costante dell'operare delle forze inglesi prima ed americane poi nello scenario mediorientale: gli inglesi e i francesi se ne avvalsero, insieme alle tribù arabe della Penisola Arabica, per smantellare l'Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale, e oggi gli americani portano avanti l'opera senza porsi più di tanto limiti al caso.

 

Può pertanto apparire pure inevitabile, in mezzo a scenari tanto inquietanti per tutta la regione e per la stessa Resistenza palestinese, assistere a riposizionamenti in fin dei conti anche comprensibili alla luce di un certo "sano" opportunismo, con Hamas che per esempio accoglie con calore la caduta degli Assad definendolo "un successo per il popolo siriano nel suo percorso verso il raggiungimento della libertà e della giustizia". Un vecchio detto latino recita "primum vivere, deinde filosofare" e ci ricorda che, di fronte ad un nemico come Israele, che ha riportato un'enorme vittoria come quella d'essersi sbarazzata di uno storico avversario strategico come la Siria, oltretutto spezzando il legame che questa garantiva all'Asse della Resistenza, ai più deboli come Hamas, segnata da più di un anno di conflitto rovinoso, possa pure convenire un certo "politichese" di rito per guardare al domani. Dopotutto, è soprattutto ai loro partner e finanziatori arabi del Golfo che ora più che mai Hamas e l'OLP devono guardare, sposandone pure la linea politica cauta ma al contempo acuta e proiettata al futuro, che sempre più incontra la sintonia dei nuovi e grandi attori mondiali, a cominciare in primo luogo da Pechino. Il futuro per il Medio Oriente è oltre le vecchie staccionate, da cercarsi oggi più che mai oltre i confini regionali, in quelle grandi e nuove potenze di cui sempre più ci sarà bisogno nel mondo. Dopotutto gli Stati Uniti passeranno, lentamente ma inesorabilmente; e anche la stessa Israele dopo aver capitalizzato quanto più può delle opportunità garantitegli dall'ombrello politico e militare americano, non tarderà a quel punto a cercarsi nuove sponde e nuovi referenti, dai quali tuttavia mira a presentarsi avendo guadagnato nel frattempo più potere negoziale possibile: anche arraffando tutto il possibile, come proprio ora sta facendo. Non è detto che sarà un calcolo tanto sicuro e garantito per le sue leadership, anche perché come recita un altro famoso detto “non si devono mai fare i conti senza l'oste”. 

 

Del resto, e questo dovrebbe pure farci riflettere sul quanto consenso avesse ormai perduto Assad tanto in patria quanto nella regione, quel che giorni fa è avvenuto a Damasco vede festeggiare pure molti siriani e persino molti palestinesi, anche a Gaza e nella West Bank: addirittura molti, tra quest'ultimi, sono convinti che la sua caduta favorirà la liberazione della Palestina, come se l'ostacolo al suo conseguimento dipendesse dal suo governo e non dipenda invece da quello israeliano. Certo, molti siriani erano ormai stanchi od esasperati dall'inazione del loro vecchio governo, paralizzato dall'usura infertagli da anni di guerra civile e da gravi fenomeni di corruzione che per ultimo ne hanno killerato anche la catena di comando, tanto da non riuscir ormai più a garantire una governabilità ed una ripresa nel paese, oltre a deludere al contempo pure i suoi partner ed alleati di Astana, e questo può spiegare la reazione di una loro parte, comunque dalle tendenze confessionali più radicali. E del resto, su molto di quel consenso che i nostri TG ci rivendono gonfiato oltre l'inverosimile, non dimentichiamocelo mai, pesa pure il terrore delle rappresaglie dei nuovi padroni della Siria, che non hanno proprio l'aspetto di gradire più di tanto critiche e contraddittorio: soprattutto i cittadini più laici o d'altre fedi religiose, cristiani, sciiti ed alauiti, sono oggi costretti a prostrarsi e ad arruffianarsi al nuovo potere, tessendone ovunque le lodi, oltre a spergiurare sul vecchio regime. Ma per quanto invece riguarda il resto dell'opinione pubblica mediorientale, oltre a queste stesse ed umanamente comprensibili paure, s'ha purtroppo anche la prova di quanto potente e radicata sia stata una certa manipolazione mediatica e politico-religiosa a cui è stata assoggettata per generazioni, e che ha davvero "avvelenato i pozzi". Pure su questo vasto caos politico-cognitivo aprire una riflessione potrebbe esser cosa opportuna: ben coltivato negli anni da Israele e dai suoi alleati occidentali e locali, tramite i principali media sia internazionali che locali, ed in particolare dalla galassia dell'Islam politico che ne è tra le più munifiche foraggiatrici, ha infestato d'erbe cattive un terreno che richiederà lunghi anni e paziente lavoro per poter esser un giorno finalmente ripulito e ricondotto alla fertilità.
 

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