La recente notizia di un accordo politico e militare tra Israele e il Somaliland, stato separatista dalla Somalia e privo di riconoscimento internazionale, ha suscitato nuove preoccupazioni e polemiche in tutto il Corno d'Africa, che potrebbero rapidamente riverberarsi anche nella Penisola Arabica e nel resto del Medio Oriente, fino a coinvolgere nell'attuale quadro di crisi regionale i principali attori globali.
La notizia è giunta pressoché a sorpresa, sollevando nuovamente l'attenzione su una realtà “clandestina” come il Somaliland dove già da tempo gravavano i noti interessamenti di Etiopia ed Emirati Arabi Uniti. I lettori ricorderanno i vari articoli già dedicati in passato alle improvvise richieste dell'Etiopia di uno sbocco sul mare ai suoi vicini Eritrea, Gibuti, Somalia e Kenya a partire dall'ottobre 2023 e che scatenarono immediate tensioni con quest'ultimi; tensioni ben presto destinate ad aumentare due mesi dopo, col MoU tra il governo etiopico e quello del Somaliland, annunciato il 1 gennaio 2024, che avrebbe visto Addis Abeba riconoscerne per prima a livello internazionale l'indipendenza in cambio di un presidio navale e militare sulle sue coste, nell'area di Berbera. Riconoscendo l'indipendenza del Somaliland, l'Etiopia avrebbe così creato un precedente che negli auspici del governo di Hargeisa avrebbe portato anche altri paesi, non soltanto dell'Unione Africana, a fare altrettanto: si parlava già, in quel momento, proprio degli Emirati Arabi Uniti e di Israele, interessati a loro volta a finanziare il progetto etiopico e ad usufruirne.
Corrispondente all'ex Somalia britannica, ovvero la parte settentrionale della Somalia unitaria internazionalmente riconosciuta e divenuta indipendente nel 1960 dopo il simultaneo ricongiungimento con la parte italiana, il Somaliland dal 1991 ha proclamato una propria indipendenza che nessuno, nel clima di guerra civile in cui era piombato l'intero paese, ha mai inteso riconoscere; ciò non lo distingue da altri stati sorti dalla deflagrazione dello Stato somalo unitario con la guerra civile, come il Puntland o ancora certi sorti e scomparsi nel giro di pochi anni, spesso in base alle fortune dei signori della guerra che li guidavano. Nel corso degli anni le trattative per la ricomposizione dello Stato unitario a capitale Mogadiscio, man mano che i fuochi del conflitto civile si spegnevano, hanno spesso visto buoni risultati tra le delegazioni del governo somalo internazionalmente riconosciuto e le sue controparti, comprese quelle del Somaliland: le ultime, portate avanti da Gibuti, erano state ritenute fortemente incoraggianti dopo gli incontri avvenuti proprio sul finire del 2023. Tutto sembrava dunque andare bene, verso una progressiva ricomposizione della Somalia unitaria, finché non è giunta a sorpresa proprio la notizia del MoU tra Etiopia e Somaliland, coi loro governi allo scontro con quello di Mogadiscio a cui nel frattempo s'univano gli altri suoi partner regionali ed internazionali, dall'Eritrea alla Turchia fino ai paesi della Lega Araba come in primo luogo l'Egitto e l'Arabia Saudita; oltre ovviamente a Cina, Russia, e persino Unione Europea e Stati Uniti che a loro volta sottolineavano la necessità di rispettare la Somalia nei suoi reali confini senza riconoscere il secessionista Somaliland.
Si sapeva già allora, come ricordavamo, che l'interessamento etiopico ad uno sbocco sul mare nel Somaliland trovasse appoggi e condivisioni anche in Israele e negli Emirati Arabi Uniti, desiderosi a loro volta di guadagnarsi uno spazio in un'area a dir poco strategica, davanti al Golfo di Aden, a pochi passi dallo Stretto di Bab el-Mandeb che lo separa dal Mar Rosso, dirimpetto al turbolento Yemen: da là si può controllare e condizionare ogni passaggio tra Mediterraneo ed Indo-Pacifico, letteralmente tra Occidente ed Oriente. Non va dimenticato come Emirati Arabi Uniti ed India siano legati con Israele al progetto, oggi un po' arrancante a causa della guerra in Medio Oriente, della Via del Cotone, concepita da Stati Uniti ed Unione Europea come alternativa alla Nuova Via della Seta (One Belt, One Road, o Belt and Road Initiative, BRI) che collega la Cina al mondo intero conoscendo proprio nel Mar Rosso, nei passaggi da Suez, una delle sue vie marittime principali. Inoltre Israele da anni coltiva il progetto del Canale Ben Gurion, che attraverserebbe la Penisola del Sinai parallelamente al Canale di Suez, costituendone la diretta ed immediata “alternativa occidentale”: presidiare le vie di transito da Eilat, suo porto nel Sinai, al Mar Rosso fino a Bab el-Mandeb e il Golfo di Aden, le fornirebbe garanzie in più nonché un potere di controllo che potrebbe facilmente tramutarsi in una vera e propria ipoteca sugli interessi altrui. L'Etiopia, in gravi difficoltà interne e bisognosa di capitali, avrebbe dunque compiuto il “lavoro sporco” per i partner israeliani ed emiratini, al contempo guadagnandosi pure un'antica e mai sepolta ambizione come quella di uno sbocco sul mare: l'aveva detenuto soltanto per un breve periodo della sua storia, tra il Secondo Dopoguerra e il 1991, dopo che gli Alleati avevano concesso al Negus Haile Selassie d'annettersi l'ex Colonia Eritrea italiana come una sorta di “bottino di guerra”, contro il suo diritto all'indipendenza e in sprezzo al diritto internazionale.
Il progetto non ha funzionato perché molto rapidamente una serie di paesi dall'Eritrea alla Turchia all'Egitto si sono fortemente mobilitati sia diplomaticamente che militarmente per impedire una simile violazione del diritto internazionale. Turchia ed Egitto hanno inviato diecimila militari ciascuna a Mogadiscio, oltre a firmare col Presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud accordi di difesa militare a livello terrestre, aereo e navale; l'Eritrea, che assiste la Somalia a ricostituire il suo esercito nazionale avendole già formato ventimila cadetti, ugualmente ha stretto col Cairo e con Mogadiscio un ulteriore accordo d'assistenza e protezione; l'Arabia Saudita e il Qatar, disturbati dall'azione etiopica ed emiratina, del pari si sono ulteriormente avvicinati alla Somalia e ai suoi alleati, e così pure l'Iran. A seguito della riconciliazione tra Arabia Saudita ed Iran favorita dalla diplomazia cinese a primavera 2023, che ha provveduto a superare anche molte fratture tra Sciiti e Sunniti in Medio Oriente, Riyad e Teheran si sono spesso visti sempre più vicini su molti dossier di portata comune, e quello somalo è certamente uno di questi. Un altro, come già avevamo raccontato in passato, è quello sudanese, dove insieme a Russia, Egitto, Turchia ed Eritrea sostengono il governo di Khartoum nella guerra civile scatenata dalla ribellione delle RSF (Forze di Supporto Rapido, gli ex Janjaweed dell'era di Omar al Bashir), a loro volte appoggiate da Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Israele e Francia.
Nell'estate scorsa, mentre l'Etiopia sempre più s'impantanava nella situazione causata dal MoU del 1 gennaio, gli Emirati Arabi Uniti hanno rilanciato la posta, con un nuovo accordo col Somaliland relativo alla realizzazione di una propria base navale e militare, oltre che all'addestramento dei militari di Hargeisa. Complici le già gravi tensioni nel Corno d'Africa e nel Medio Oriente, e i calori estivi, la notizia almeno in Italia è passata praticamente in sordina, come del resto oggi sembra avvenire anche per il nuovo accordo che a sua volta Israele ha stabilito per proprio conto con le autorità di Hargeisa, sempre in merito ad un'analoga infrastruttura. In un momento in cui il conflitto in Medio Oriente sembra aggravarsi più che mai, coinvolgendo anche lo Yemen, appare dunque piuttosto curioso che nessuno volga il proprio sguardo anche sul prospiciente Corno d'Africa, dove si sta praticamente svolgendo il capitolo parallelo delle stesse vicende mediorientali: gli attori coinvolti sono spesso i medesimi, da Israele all'Iran, oltre a paesi arabi come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti o l'Egitto, mentre a cambiare sono semplicemente i teatri di guerra: non Gaza, il Libano o lo Yemen, ma la Somalia, la sua regione separatista del Somaliland o ancora il Sudan. Il Golfo di Aden, lo Stretto di Bab el Mandeb e il Mar Rosso costituiscono, per questi due teatri di guerra, Corno d'Africa e Medio Oriente, le “cerniere”, i punti d'aggancio.
E' una catena di conflitti molto complessa perché, come già notato anche in passato, oppone tra loro anche paesi accomunati dall'appartenenza ai BRICS, come Etiopia ed Emirati Arabi Uniti contro Egitto, Iran e Turchia, nonché l'Arabia Saudita, col rischio che le incomprensioni anche dentro la stessa organizzazione possano sempre più allargarsi pure ad altri membri. Quel che è certo, e già in parte al recente Summit di Kazan l'abbiamo intravisto, è che un progressivo chiarimento tra i membri dell'organizzazione sia in atto, intuibilmente favorito dai più grandi come Cina e Russia in primo luogo, perché soprattutto in Sudan le RSF sembrano ormai ricevere sempre minori appoggi dall'esterno mentre anche in Somaliland la tendenza di Etiopia ed Emirati Arabi Uniti è a lasciar cadere nel vuoto i loro accordi; ma è ancora una situazione molto volatile e che l'aleatorietà dei conflitti in corso potrebbe facilmente invertire. Di certo, già il fatto che Israele oggi si muova di sua iniziativa con un proprio accordo col Somaliland, dopo aver preso atto dei sostanziali ritardi o persino “nulla di fatto” di Addis Abeba ed in misura minore anche di Abu Dhabi, potrebbe indicare una sua sempre minor fiducia nei loro confronti.
Israele potrebbe aver dunque deciso di forzare i tempi per continuare, quantomeno, a mantenere un certo ascendente sugli Emirati Arabi Uniti, che anche in questo caso finanzierebbero l'opera con la previsione di poterne in parte usufruire: se politicamente Abu Dhabi sembra talvolta allontanarsi da Gerusalemme, che non lo faccia dunque anche in termini di cassa. Rimane sottinteso, come per gli accordi precedenti, che in cambio della sua disponibilità il Somaliland si vedrebbe dare l'agognato riconoscimento, e che questa volta sarebbe Israele la prima a concederglielo. Israele avrebbe dunque deciso di fare da sé, dopo aver preso atto delle mancanze e degli allontanamenti dei suoi partner, consapevole di dover correre da sola contro il tempo in una partita geopolitica, tra Medio Oriente e Corno d'Africa, che pare ormai giocare sempre meno a suo favore. Se fosse realmente così, significherebbe che l'isolamento di Israele a più di un anno dall'inizio del conflitto a Gaza sia ormai sempre più destinato ad aver effetti ancor più destabilizzanti di quanto finora già visto tra Medio Oriente e Corno d'Africa: giocarsi il tutto per tutto, in una vera e propria corsa all'autodistruzione.
Ed il tutto non soltanto con gravi e crescenti implicazioni militari, ma anche giuridiche: Israele, oltre a violare numerose risoluzioni ONU riguardo il conflitto in Medio Oriente e a non accettare un riconoscimento per lo Stato palestinese, costringendo anche i suoi alleati occidentali a far altrettanto, non avrebbe infatti ora alcuna remora a riconoscere il Somaliland, stato secessionista dalla Somalia e non riconosciuto internazionalmente, in cambio di una base navale e militare. Allo stesso tempo, il dramma e il paradosso.