In questi giorni il mondo intero, e non il solo Medio Oriente, è alle prese con una situazione che potrebbe facilmente sfuggire di mano, fino a provocare conseguenze ben più irreparabili di quelle già viste sinora. Nei giorni scorsi, scatenando massicci bombardamenti su Beirut e sul Libano meridionale, Israele ha ottenuto uno degli obiettivi che si prefiggeva da tempo, uccidere il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Ben presto è emersa la corresponsabilità degli Stati Uniti, che hanno autorizzato il loro inquieto alleato mediorientale a procedere ad una tale operazione scatenando non soltanto verso Israele ma anche verso Washington un sempre maggior contrasto e sdegno internazionali. Per gli Stati Uniti e per Israele, chiaramente, colpire massicciamente Hezbollah ed eliminare Nasrallah col ricorso a bombe antibunker, provenienti dagli arsenali di Washington, rispondeva infatti a differenti “vantaggi”: per i primi, un buon risultato da vantare in sede elettorale, giacché tra un mese si voterà e i margini tra democratici e repubblicani sono come al solito sempre piuttosto risicati, così da convincere il sempre più scettico elettorato americano dell'opportunità di continuare a sostenere Israele nel suo conflitto coi propri vicini e rivali strategici; per i secondi, privarsi di un nemico storico come Nasrallah, decapitando Hezbollah ed indebolendolo così da facilitarne la desiderata sconfitta, privando perciò l'Iran di uno dei suoi migliori alleati e garantendosi ben più che una sicura egemonia sul proprio fianco settentrionale, oltre ovviamente all'altrettanto e forte recupero di consensi del governo di Netanyahu presso i propri cittadini.
Fin qui i punti in comune nella strategia tra i due alleati, Stati Uniti ed Israele, ai quali appare decisamente irrinunciabile un Medio Oriente saldamente sotto controllo con un Iran a sua volta fortemente ridimensionato. Neanche troppo a latere, però, s'affacciano anche i distinguo nelle loro priorità, dettati in primo luogo dal mero calcolo politico: se per Israele è tassativo coinvolgere il prima possibile e sempre più massicciamente i propri alleati come in primis proprio gli Stati Uniti nel conflitto che sta conducendo in Medio Oriente contro Hamas, Hezbollah, gli Houthi e l'Iran, per gli Stati Uniti ritrovarsi direttamente coinvolti in un conflitto allargato alla vigilia delle elezioni presidenziali si tradurrebbe invece in una scontata catastrofe, una vera e propria pietra tombale per l'Amministrazione uscente e la candidata Kamala Harris. Questo paralizza almeno per il momento alcuni margini di manovra, senza peraltro contribuire a far chiarezza su tutti gli altri, giacché aumentare il proprio impegno in Medio Oriente fino a ritrovarvisi letteralmente risucchiati non significherebbe necessariamente per gli Stati Uniti recuperare tutti gli storici alleati regionali distanziatisi nel tempo a vantaggio di Teheran, di Mosca e di Pechino. Siamo davvero così sicuri che l'Arabia Saudita, il cui Principe ereditario non a caso ha chiamato subito dopo i bombardamenti su Beirut e l'uccisione di Nasrallah ad un'alleanza dei popoli arabi e musulmani contro Israele e per la Palestina, o il Qatar o il Kuwait, o persino gli stessi Emirati Arabi Uniti, sarebbero disposti ad abbandonare i rapporti con Teheran che hanno coltivato in questi ultimi anni per accettare nuovamente un rapporto satellitare sotto gli Stati Uniti ed Israele e a far del proprio territorio un campo di battaglia?
In quest'anno di conflitto spesso molti nostri analisti strategici su giornali e televisioni hanno parlato dei vari “Accordi di Abramo”, il più delle volte anche in maniera fin troppo impropria ed estensiva, dandone per certa la validità: sono quegli accordi, lo sappiamo, che implicano una normalizzazione dei rapporti tra Israele e varie nazioni arabe del Golfo come Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, sotto la regia degli Stati Uniti che li hanno presentati come uno dei loro più epocali successi politici nel Medio Oriente, e neanche troppo implicitamente tesi a rafforzare l'emarginazione dell'Iran e dei suoi alleati nella regione. Tuttavia, non molto tempo dopo quelle stesse nazioni arabe sunnite decisero di seppellire la vecchia ascia di guerra con l'Iran sciita, segnando una profonda riappacificazione nella grande famiglia musulmana tra due identità che nei decenni precedenti, almeno dalla caduta dei Pahlavi, erano stati messi l'uno contro l'altro da Israele e dall'Occidente. Quel nuovo accordo, che sul momento in Occidente suscitò sì un po' di sorpresa attenzione ma che ben presto fu anche interessatamente dimenticato, è di fatto l'unico che ha retto in quest'anno di conflitto, dato che malgrado le enormi avversità sul campo sciiti e sunniti sono comunque rimasti uniti rifiutando d'entrare in guerra tra loro. Tant'è che anche nazioni che vedono al loro interno la coabitazione tra sciiti e sunniti come Siria ed Iraq, e così anche il Libano o lo Yemen, hanno ritrovato davanti alla grande tensione con Israele una forte coesione ed unità, che le rende ancor più unite nel sostegno alla causa palestinese. Se i vari Accordi di Abramo fossero stati validi o rispettati, avremmo invece visto il contrario, ma a quanto pare un anno di conflitto a molti di questi nostri analisti non ha insegnato niente.
Un'ulteriore prova di come sia la situazione sul campo la riceviamo anche dall'operazione “True Promise 2”, con cui nella notte dello scorso 1 ottobre l'Iran ha voluto punire i bombardamenti israeliani su Beirut, l'ingresso dell'IDF nel Libano meridionale nonché i precedenti attentati a civili, alleati e personale iraniano recentemente compiuti dall'intelligence e dalle forze armate israeliane. Tuttora le fonti dibattono tra i quasi 200 o addirittura 400 missili, tra balistici ed ipersonici, tra cui i recenti Fattah 1 e 2, lanciati dall'Iran su Israele e che per oltre l'80% hanno centrato i loro obiettivi, colpendo almeno due basi militari ed aeree, una piattaforma estrattiva ed altre importanti infrastrutture. I fatti sono ormai piuttosto noti e non è necessario scendere più di tanto nei dettagli, ma in ogni caso balza vistosamente agli occhi la portata del successo militare iraniano: enormi risultati sul campo, oltre al ripristino della propria deterrenza regionale, sono stati raggiunti dall'Iran con un'operazione che ha avuto una spesa stimata tra i 40 e i 60 milioni di dollari, e che ha centrato più dell'80% dei propri obiettivi non trovando un'adeguata resistenza aerea ed antimissile da parte di Israele, il cui tanto decantato sistema Iron Dome per esempio ha un costo per singola batteria di 50 milioni di dollari. Gli unici missili abbattuti si sono avuti in pratica solo sui cieli della Giordania, paese che per propria storia politica e condizione geopolitica non può rifiutarsi dal dire di no a Stati Uniti ed Israele, e ai quali ha infatti concesso, unica tra le nazioni arabe di transito per i razzi, l'uso del proprio spazio aereo. L'operazione di filtraggio compiuta dalle forze israeliane ed americane, tuttavia, ha avuto un costo che è stato calcolato in oltre un miliardo. Anche in questi aspetti, dall'impressionante differenza di spesa alla particolare “esclusività” di ruolo della Giordania tra i paesi arabi, si possono capire le differenze tra un successo e un insuccesso, oltre a rivivere molto di quanto già capitò lo scorso 13 aprile, allorché la risposta iraniana all'incursione israeliana sull'Ambasciata a Damasco avvenne soprattutto a mezzo di droni, più leggeri ma anche più lenti dell'armamento a cui è stato fatto ricorso stavolta; eppure già allora si trattò di un'azione tutt'altro che sfortunata negli esiti per Teheran.
Se dunque Teheran esce rafforzata da questa nuova risposta ad Israele, sfoggiando una recuperata deterrenza che mette oltretutto a nudo le vulnerabilità di Israele, è adesso quest'ultima ad aver in mano la palla e a doverla lanciare a sua volta. La volta scorsa la sua risposta ai lanci iraniani fu piuttosto tenue rispetto a quanto promesso; stavolta aveva annunciato un'azione nella notte immediatamente successiva, il 2 ottobre, ma non è andata oltre a nuove operazioni aeree su Beirut e a scontri nel Libano meridionale con le forze di Hezbollah, non proprio coronati da esiti convincenti. Gli Stati Uniti, per le ragioni politiche ed elettorali già menzionate, non vogliono avallare mosse più imprudenti, come quella di un attacco sul suolo iraniano, e di conseguenza Israele deve “accontentarsi” di ciò che già fa, ovvero continuare a colpire il Libano e lo Yemen che già martellava nei giorni precedenti, così come la Resistenza palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Senza volersi dare a scommesse, vi sono dunque buone possibilità che la ritorsione israeliana si limiti ad un'azione limitata o comunque a forte valenza simbolica, come del resto già fu pochi giorni dopo quella iraniana del 13 aprile; sempre che non venga spostata su un arco temporale più ampio, magari a dopo le presidenziali americane, qualora i democratici si vedano riconfermati una presenza alla Casa Bianca, o persino più avanti, ad anno nuovo, in concordanza con la nuova Amministrazione che vi sarà, democratica o repubblicana che sia.