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La paziente diplomazia di Pechino in un mondo alla vigilia di grandi cambiamenti

2024-07-25 17:00

Filippo Bovo

La paziente diplomazia di Pechino in un mondo alla vigilia di grandi cambiamenti

Poco più di un anno fa, grazie alla mediazione cinese, Iran ed Arabia Saudita decisero di sanare la frattura che non divideva soltanto i loro governi

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Poco più di un anno fa, grazie alla mediazione cinese, Iran ed Arabia Saudita decisero di sanare la frattura che non divideva soltanto i loro governi ma, nel più ampio scenario mediorientale, gli sciiti e i sunniti; e ciò ebbe immediate e positive ricadute ben oltre la regione, dove quello stato di conflittualità diffusa aveva seminato numerosi attriti e scontri localizzati. L'Iran si riappacificò significativamente anche con gli Emirati Arabi Uniti, la cui agenda strategica non è in ogni caso da porsi sul medesimo piano di quella saudita: se in passato Riyad ed Abu Dhabi s'erano sempre mosse in tandem, su vari dossier come quelli delle Primavere Arabe o della guerra contro gli Houthi nello Yemen settentrionale, già quantomeno dallo scoppio del conflitto russo-ucraino avevano cominciato a sorgere le prime discrepanze. 

 

L'Arabia Saudita, dove da tempo andava rafforzandosi la figura del Principe ereditario Mohammad bin Salman, lasciava trapelare la propria volontà di riequilibrare i propri rapporti economici e politici, tradizionalmente molto sbilanciati a favore degli Stati Uniti e dell'Occidente; mentre gli Emirati, che all'ombra del grande confinante saudita avevano sempre mirato a perseguire una politica estera tendenzialmente più multivettoriale, continuavano nella loro già collaudata linea puntando semmai a darle qualche nuovo ed ulteriore arricchimento. Entrambi i paesi, approfittando delle nuove congiunture globali che andavano sviluppandosi, puntavano nell'insieme a recuperare sempre maggiori quote di sovranità, talvolta entrando anche in sotterraneo contrasto tra loro, come nel caso del Sudan, dove all'appoggio saudita al governo militare del Generale Abdel Fattah Burhan si contrappone quello emiratino ai ribelli delle RSF di Mohamed Dagalo Hemeti.  

 

L'Arabia Saudita manifestava crescenti dissapori verso l'Occidente, ad esempio non rispondendo in sede OPEC alle richieste americane d'aumentare il proprio greggio estratto per mantenere bassi i prezzi dopo che la Russia, in risposta alle sanzioni di Washington e Bruxelles, a seconda dei casi ne riduceva l'estrazione o lo destinava soprattutto ai propri alleati come Cina ed India; mentre gli Emirati talvolta coglievano tale occasione per mantenere invariati o ritoccare leggermente verso l'alto i propri quantitativi di greggio estratto, non entrando così in diretto scontro con gli Stati Uniti e l'UE ma al contempo avvicinandosi molto a Mosca, di cui lavorava nelle proprie raffinerie importanti quantità di greggio poi destinato proprio ai mercati europei. Riyad vendeva sempre maggiori quantitativi di greggio in yuan anziché in dollari, e alla pari di Abu Dhabi votava insieme agli altri partner BRICS per dar vita ad un nuovo sistema di pagamenti alternativo allo SWIFT occidentale, come pure una valuta internazionale alternativa al dollaro, entrambe idee molto caldeggiate non soltanto dalla leadership russa ma in particolare proprio iraniana. Del resto, tanto l'Arabia Saudita quanto gli Emirati avevano ormai da tempo stabilizzato la loro presenza non soltanto nei BRICS, ma come partner di dialogo anche nella SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), dove oltre a Cina e Russia come suoi storici fondatori anche l'Iran è ormai nello stabile ruolo di membro a pieno titolo. 

 

Insomma, pur con distinguo legati alla necessità di portare avanti i propri interessi strategici, che in un quadro di maggior sovranità può pure implicare una convivenza tanto tra comuni quanto tra diverse scelte in politica estera, i due paesi hanno comunque accentuato a diverso titolo il loro distacco dai vecchi alleati occidentali e la loro maggior vicinanza con gli altri paesi emergenti. Non di meno tale tendenza ha riguardato pure gli altri paesi della regione, a cominciare dagli altri partner del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) come il Qatar o ancora, in modo non certo meno vistoso, la Turchia, la cui politica strategica è andata nel tempo facendosi sempre meno atlantista e sempre più eurasiatista. Nell'insieme appaiono oggi più vicini o in buoni rapporti con Teheran, e nel caso di paesi come l'Arabia Saudita o gli Emirati si può pure dire che i tanto sbandierati Accordi di Abramo, lasciati da Trump e portati poi avanti da Biden, che avrebbe dovuto schierarli con Israele in funzione sempre più anti-iraniana, appaiano oggi più come un fantasma giuridico che un'effettiva realtà politica. Dinanzi ai fatti del 7 ottobre e alla guerra che ne è seguita, né Riyad né Abu Dhabi come del resto gli altri membri del CCG, della Lega Araba o ancora la stessa Turchia hanno mai pensato di schierarsi con Israele scaricando i buoni uffici maturati con Teheran grazie alla paziente mediazione cinese.

 

Del resto, non servirebbe un grande sforzo di comprensione per rendersi conto delle ragioni di una tale scelta: certamente vi sono i forti legami con la Cina, la Russia e il resto del vasto mondo della SCO che sono andati sempre più rafforzandosi in termini politici, economici, commerciali ed energetici, come in parte abbiamo pure accennato; mentre il progetto della BRI (Belt and Road Initiative) ha dato a tutti questi paesi maggiori ragioni per restare vicini e lavorare insieme per salvaguardare ed accrescere un comune benessere, anziché per dividersi. Ma forte è anche il desiderio di pace nelle masse arabe e mediorientali che escono da anni d'inutili conflitti fratricidi, e che hanno insanguinato in varie ondate tanto il Mashreq quanto il Maghreb. Tra i vari teatri di conflitto di quello scontro che aveva separato sciiti e sunniti ben oltre le cornici della storica fitna, e che proprio nel dialogo irano-saudita favorito da Pechino ha trovato le prime effettive possibilità di una soluzione, Siria, Iraq e Yemen sono forse stati i paesi in cui maggiormente si sono notati gli effetti del cambiamento. 

 

Per anni questi paesi avevano dovuto scontare drammatiche lacerazioni interne, proprio tra  sciiti e sunniti, contrapposti da movimenti terroristi che al tempo stesso li schiacciavano e li dividevano: tali gruppi fondamentalisti, in percentuale assai minoritari rispetto alla popolazione, avevano però dalla loro parte un forte sostegno militare esterno da Occidente ed economico da parte delle stesse monarchie del Golfo, che al tempo con Washington si muovevano con una buona intesa. Era stato così, come testimoniato dalle migliaia di email dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton che Wikileaks pubblicò, sulla regia statunitense delle Primavere Arabe da cui tutto quei drammi erano divampati senza conoscer più soste, e prima ancora col non meno drammatico intervento anglo-americano del 2003 in Iraq. Un Medio Oriente diviso tra sciiti e sunniti, tra moderati e fondamentalisti, frammentato tra paesi rivali ed in perenne instabilità, è nell'interesse di chi dall'esterno mira ad applicarvi la dottrina del “Divide et impera”; ovvero, dell'Occidente e del suo alleato locale israeliano. Così, incoraggiando il dialogo anziché la conflittualità, Pechino ha permesso che si ponessero invece le basi per una ricomposizione, certamente assai sgradita tra Washington e Gerusalemme, che non a caso ora tutto tentano pur di sovvertirla; peraltro senza riuscirvi.

 

Come già dicevamo, la validità di quel risultato si può provare proprio dalla sua tenuta all'indomani degli eventi del 7 ottobre: se qualcuno si fosse aspettato che la rivalità tra le monarchie sunnite del Golfo e l'Iran si riaprisse rispolverando proprio i precedenti Accordi di Abramo, costui sarà certamente rimasto deluso, malgrado le tante fake news nel frattempo pubblicate da molta stampa occidentale a mo' di consolazione. Un altro aspetto che sorprese allora il mondo occidentale, quando il 10 marzo 2023 quella ricomposizione tra Teheran e Riyad venne annunciata, fu che nulla prima fosse mai trapelato al riguardo: questo provò pure che il possesso, da parte di Pechino, di canali comunicativi che le agenzie d'intelligence occidentali non erano in grado di decriptare onde sabotare quei negoziati. Proprio perché, sempre come già dicevamo, la frattura tra sciiti e sunniti, tra Iran e gran parte del Mondo Arabo, era stata artificiosamente creata ed alimentata dal tandem israelo-occidentale per basarvi la propria egemonia in Medio Oriente: avendo l'esclusivo interesse a mantenerla, tutto avrebbe dunque fatto per impedire una ricomposizione. 

 

Ora abbiamo un raddoppio di questa offensiva diplomatica, come provato dall'appena maturato accordo che riunisce Hamas ed Al-Fatah insieme ad altre dodici formazioni palestinesi minori per un governo di unità nazionale propedeutico all'applicazione della formula dei due Stati e dell'ingresso a pieno titolo all'ONU. Si tratta di un ulteriore colpo al vecchio ordine occidentale in Medio Oriente, e non ci sono dubbi che analogamente tanti saranno i tentativi sia di sminuirlo che di sovvertirlo; ma oltre a questo raddoppio, già se ne intravede un altro, nella forma di un negoziato tra Russia ed Ucraina che a quel punto si verificherebbe con un ruolo marginale se non addirittura assente dell'Occidente che enormi responsabilità ha avuto nel preparare, favorire e mantenere il loro conflitto. Ci ricorderemo che fin dal 2022 la Cina aveva elaborato un piano di pace tra i due paesi che proprio l'Occidente a guida statunitense sabotò oltremodo, addirittura fino al punto da far fallire le conclusioni dell'allora Summit del G20 di Bali. 

 

In parole semplici, nel giro di pochissimo tempo Pechino ha non soltanto favorito con pacifiche soluzioni negoziali una ricomposizione tra sciiti e sunniti in Medio Oriente, ma forte di quella credibilità derivatale da un simile approccio presso le leadership e le masse mediorientali, può oggi presentarsi come il più spendibile se non addirittura unico paese a poter favorire e sostenere gli interessi e le istanze del popolo palestinese a livello internazionale. Mentre, dinanzi al conflitto russo-ucraino ormai intuibilmente agli sgoccioli, il suo ruolo di mediatore fin dal principio torna puntualmente e spontaneamente a riaffiorare; non appena le delegazioni palestinesi rientravano forti dell'importante risultato diplomatico raggiunto, il ministro ucraino Dmytro Kuleba giungeva a Pechino per annunciare la disponibilità di Kiev a riconsiderare le precedenti posizioni di sfiducia a negoziare con Mosca. Ognuno raccoglie i frutti di quel che ha seminato, mentre grandi cambiamenti di portata epocale s'annunciano al mondo intero.
 

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