William Lai Ching-te, del Partito Democratico Progressista (DPP), ha vinto alle presidenziali a Taiwan con un forte vantaggio sul rivale Hou Yu-ih del Kuomintang (KMT) di quasi 7 punti, pari al 40% contro il 33,4%, andatosi sempre più a consolidare nel corso dello scrutinio. Ha vinto, ci riportano i media nostrani, da favorito, anche se le ultime tornate elettorali nell'Isola non erano sembrate sempre così benauguranti per il DPP. Certo, non sono mancate, in questa come in altre occasioni, relative pure a tanti altri paesi, infiltrazioni e speculazioni nel voto: sostanzialmente le elezioni sono state presentate, soprattutto dal DPP e all'estero, dagli alleati occidentali, come un referendum tra l'indipendenza e la riunificazione, la democrazia e l'autocrazia, il bene ed il male. Eppure nessuno dei tre candidati, dato che vi era anche il terzo, Ko Wen-je del Partito Popolare di Taiwan (PPT), ha mai parlato in realtà di riunificazione, rivendicando piuttosto la "personalità indipendente" di Taipei: si capisce, siamo pur sempre all'interno di un preciso "arco costituzionale" entro il quale certi argomenti non sono in discussione. Già solo per elementare “marketing politico”, nessun candidato avrebbe mai caldeggiato la riunificazione qualora ne fosse stato, ipoteticamente, fautore: più o meno per lo stesso principio per cui nessun candidato alla presidenza degli Stati Uniti mai promuoverebbe, in piena campagna elettorale, una politica di nazionalizzazioni qualora fosse eletto. Sono le regole cardine della democrazia liberale in salsa occidentale, e tutti i candidati cercano di vendersi al potenziale elettore nel migliore dei modi, con l'immagine più convincente possibile.
Insomma, indipendentemente dal vincitore, per Taiwan poco sarebbe comunque cambiato, e così pure nelle relazioni con gli alleati occidentali e la Madrepatria continentale. Tanto che il comportamento del vincitore dipenderà, più che dalle sue idee, che come abbiamo già detto sono grossomodo le stesse dei suoi contendenti, proprio dallo sviluppo di tali relazioni: sappiamo quale sia la situazione negli Stati Uniti oggi, così come presso gli altri alleati europei ed oceanici, e quanto minore sia rispetto al passato la disponibilità di Pechino a giocare al gatto e al topo con un Occidente così incline ad ingerire nei suoi affari interni, e pure comprensibilmente. Perché, che possa piacere o meno, di soli “affari interni” alla Cina parliamo: diritto internazionale alla mano, il principio di “una sola Cina” vale per tutti, anche per coloro che pur avendolo accettato nel frattempo fingono di non saperlo. Sappiamo infatti benissimo che in base alla Risoluzione ONU 2758/1971, sottoscritta anche dagli Stati Uniti e da tutti i loro alleati, europei e non solo, l'unica Cina internazionalmente riconosciuta sia Pechino e che Taipei ne sia solo una provincia; eppure sempre gli stessi Stati Uniti, con tutti i loro alleati, continuano a sostenere finanziariamente e militarmente un “governo d'occupazione” nell'Isola, impedendo così una riunificazione che sarebbe invece elementare conseguenza della loro approvazione a tale Risoluzione. Sarebbe dunque auspicabile, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, tutti chi più e chi meno fortemente condizionati nelle loro scelte dalle volontà di Washington, smettere d'alimentare una simile ambiguità, muovendosi finalmente in coerenza con le loro azioni e col dettato del diritto internazionale, e “staccare la spina” a quel “governo d'occupazione”, teoricamente già scaricato negli Anni '70.
Del resto, i segnali che inducono a pensare che molte cose stiano cambiando li abbiamo tutti sotto i nostri occhi: cambiano all'interno della Cina come all'interno degli Stati Uniti, così come parallelamente cambiano nei loro rapporti; e non di meno cambiano anche all'interno dell'Isola, dove certe volontà o sicurezze non sembrano più tanto granitiche come un tempo, se mai lo erano poi state. Sebbene quella del DPP, a guida della coalizione Pan-Verde, sia stata la terza vittoria consecutiva dopo i due mandati presidenziali di Tsai Ing-wen, i consensi da parte dell'elettorato sono andati diminuendo di volta in volta, testimoniando una certa stanchezza verso la retorica più indipendentista. Quattro anni fa, nella corsa per il secondo mandato, Tsai Ing-wen aveva vinto con più del 57%, mentre questa volta il suo candidato e successore non è andato oltre il 40: per il DPP e la sua coalizione, dunque, si tratta di una perdita secca di oltre due milioni e mezzo di voti. Prima di divenire presidente, William Lai è stato per quattro anni vicepresidente, dal 2020 al 2024, prima ancora premier, dal 2017 al 2019, e da circa un anno è segretario del partito: il risultato ottenuto non appare dunque molto gratificante né per lui né tantomeno per l'ormai ex presidente Tsai Ing-Wen, di cui è avvertito e non erratamente come una “creatura politica”.
Del resto, se Atene piange Sparta non ride, ed infatti anche il diretto sfidante, Hou Yu-ih del KMT, alla guida della coalizione Pan-Blu, ha riportato da questa corsa elettorale una perdita di oltre ottocentomila voti: quattro anni fa i consensi ottenuti erano stati pari al 38%, stavolta invece sono scesi al 33%. A trarre beneficio dal “declino” dei due diretti sfidanti, è stato il candidato alternativo Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei e fondatore, cinque anni fa, del PPT, forza politica “giovane” ma al tempo stesso avvertita anche come “storica” dato che lega la sua memoria alla resistenza contro l'occupazione giapponese dell'Isola durata oltre mezzo secolo, dal 1895 al 1945. Molto popolare tra i più giovani, è entrato in polemica con le forze politiche tradizionali intercettando il malcontento che nell'Isola regna per un dibattito troppo incentrato sulle relazioni tra Pechino e Washington e poco attento, invece, ai problemi sociali ed economici interni, sui quali intuibilmente il capitolo della riunificazione avrà comunque sempre un forte peso. Il nuovo presidente si ritroverà così a dover fare i conti con un parlamento dove oltretutto il suo partito è pure finito in minoranza dopo le recenti elezioni legislative: 51 seggi, dieci in meno rispetto a prima, contro i 52 del KMT e gli 8 del TPP: ricorrere ad una maggior mediazione, ed abbassare certe ostilità preconcette ad un dialogo più costruttivo con Pechino, sarà dunque essenziale, anche perché il DPP non potrà neppure contare sull'eventuale aiuto delle formazioni indipendentiste più estreme. Il New Power Party, non essendo riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5%, alle ultime legislative ha infatti perso quei suoi 3 seggi che indubbiamente al DPP oggi avrebbero potuto fare molto comodo.
Forse queste elezioni, che per qualcuno dovevano essere un referendum, hanno ricevuto da una parte crescente dell'elettorato una risposta più improntata al realismo, un richiamo all'ordine per le forze politiche affinché smettano d'alimentare certe strane suggestioni e a sposare altrettanto strane ambiguità altrui. Dopotutto, non è un mistero che per Taipei la Madrepatria Pechino sia un partner commerciale, finanziario e tecnologico doppio per percentuali rispetto agli Stati Uniti, a tacer poi di Giappone e Corea del Sud che seguono molto dopo ancora. La simbiosi esistente tra le due sponde dello Stretto si commenta da sola, ed è difficilmente sostituibile, men che meno in brevi tempi, improvvisando un mercato sigillato e a sé stante come quello vagheggiato dagli Stati Uniti nelle loro ultime amministrazioni, finalizzato a tenere Pechino fuori da Taipei e quest'ultima sotto il cappello economico e produttivo statunitense. I muri durano quel che durano, e quelli economici ancor meno: lo insegnano la storia come la geopolitica, che ancor prima ci ricordano quanto sia addirittura impossibile e vano edificarli.