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Tra Israele e Iran, chi è saggio crede alla diplomazia e non allo scontro frontale

2025-06-14 15:00

Filippo Bovo

Tra Israele e Iran, chi è saggio crede alla diplomazia e non allo scontro frontale

Fino a due giorni fa il mondo, chi tra più ottimisti e chi tra più pessimisti, confidava o quantomeno sperava in una possibile e vicina soluzione al c

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Fino a due giorni fa il mondo, chi tra più ottimisti e chi tra più pessimisti, confidava o quantomeno sperava in una possibile e vicina soluzione al conflitto di Gaza e ad una normalizzazione dei rapporti di Stati Uniti ed Israele con l'Iran. Erano previsti, per domenica 15 giugno, nuovi incontri in Oman tra gli inviati di Washington e quelli di Teheran per discutere del nucleare iraniano, e la pressione su Tel Aviv si faceva crescente, proprio per indurla ad un approccio più costruttivo verso il resto del Medio Oriente. Certo, l'atteggiamento riscontrato, col senno del poi, appariva comunque piuttosto ambiguo, troppo ambiguo.

 

Si parlava non a caso di un possibile attacco israeliano all'Iran, condotto in solitario discostandosi dalla linea ufficiale della Casa Bianca, tesa a portar avanti per proprio conto un accordo sul nucleare con Teheran. Tant'è che d'ora in ora l'allarme anziché diminuire non faceva altro che aumentare. Che Israele mirasse a qualcosa del genere, per trascinare gli Stati Uniti in un conflitto d'ampia portata in Medio Oriente, contro l'Iran e i suoi alleati locali, era comunque un fatto noto; ma meno noto era, o se non altro meno creduto, il tacito appoggio di Washington ad una simile operazione, che in pratica si sarebbe tradotta nella volontà di rinunciare alle vie negoziali con Teheran schierandosi, a grado crescente, col suo inquieto alleato mediorientale. E' quanto alla fine avvenuto proprio due notti fa. Abbiamo visto gli attacchi condotti in quelle ore da Israele, e continuati anche nelle ore successive, non soltanto contro obiettivi civili e militari, ma anche contro le strutture per l'arricchimento dell'uranio, e così pure contro personale scientifico e militare israeliano. Di quegli attacchi molto è stato detto e molto si continua tuttora a dire, e conseguentemente non staremo certo qui a farne un tardivo elenco. Piuttosto preferiamo guardare al più ampio quadro mediorientale e al vasto insieme d'interessi che non sempre vede Stati Uniti ed Israele coincidere, di là dal potere ricattatorio di quest'ultima. 

 

Sulle motivazioni per cui gli Stati Uniti non intendessero, almeno ufficialmente, lasciarsi tirare in ballo da un'azione rispondente più agli interessi israeliani che americani, qualcosa avevamo già accennato in passato, in molti vecchi articoli, e qui lo possiamo brevemente riassumere: uno scontro frontale con l'Iran si tradurrebbe nel dire addio a molti dei già malconci interessi americani nella regione; determinerebbe contraccolpi economici ed energetici pesanti a livello globale, che vedrebbero l'ostilità preventiva degli altri attori internazionali coi quali per giunta Washington si ritroverebbe a pagare anche altri e vari effetti collaterali sul piano diplomatico, negoziale, ecc; infine richiederebbe l'uso delle basi nella regione, a partire da quelle nei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), che giustamente non intendono concederlo preferendo mantenere una costruttiva neutralità con Teheran, come sancito nel 2023 con l'assistenza della diplomazia cinese. Certamente quest'ultimo fatto agli Stati Uniti non piace, ed è intuibile che la Casa Bianca miri a rompere quei rapporti arabo-iraniani per riportare gli equilibri mediorientali indietro di qualche anno, a maggior tutela e rassicurazione di Israele. Ma ciò implicherebbe anche, in caso di scontro frontale, l'uso delle basi americane nei paesi del CCG per un'offensiva contro Teheran, le sue immediate reazioni militari contro gli obiettivi militari ed energetici americani presenti in quegli stessi paesi e, in definitiva, un Medio Oriente in fiamme; mentre il prezzo del greggio semplicemente schizzerebbe alle stelle.


Ieri il Segretario di Stato americano Marco Rubio, dopo la notizia dell'offensiva israeliana, ha rilasciato un comunicato piuttosto sobrio e coerente con le posizioni ufficialmente espresse dalla Casa Bianca nei giorni precedenti, un elegante "non c'entriamo nulla" che tuttavia, d'ora in ora, è risultato solo in parte vero. Dopotutto non è un mistero che i negoziati in Oman stessero ormai conducendo gli Stati Uniti a risultati giudicati piuttosto “frustranti” o comunque “insoddisfacenti”. Ed infatti, proprio grazie all'azione militare israeliana di due notti fa, Teheran ha annunciato il suo ritiro dal negoziato: dunque niente appuntamento di domenica prossima e, plausibilmente, in futuro, vista pure la pubblicazione da parte iraniana di carte compromettenti sul vertice dell'AIEA, Rafael Grossi, un possibile ritiro iraniano da quella stessa organizzazione e dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Sebbene quest'ultima ipotesi non sia proprio così scontata dato che esporrebbe l'Iran ad una posizione giuridicamente meno difendibile anche per molti suoi alleati, e certamente più “conveniente” per Washington e persino Tel Aviv, con tutto che non ne faccia parte a sua volta pur avendola, documenti pubblicati alla mano, sin qui disinvoltamente eterodiretta. Non sarà dunque un processo da darsi tanto per scontato od automatico, e lo stesso si può dire per la creazione di un vero e proprio nucleare a fini militari, vista la convenienza politica sia interna che nella rete iraniana delle alleanze internazionali; a prescindere dal fatto che in ogni caso Israele, con la sua azione di due notti fa, sia stata ben lontana dal poterlo anche solo minimamente scalfire. 

 

D'altronde, a seguito dell'attacco israeliano, in Europa erano scattate grandi fanfare con facili proclami che davano ormai per certo l'annullamento delle capacità offensive iraniane: oltre ai siti nucleari, dati per morti o quasi, anche di tutto il resto molti nostri analisti non fornivano certo stime molto più ottimiste. Sono state ore in cui tutti abbiamo assistito ad un immenso circo del wishful thinking filoamericano e filoisraeliano. A raggelarlo, e non sorprende in tal senso come il mondo dell'informazione occidentale si sia presto coordinato nello sminuirlo od occultarlo il più possibile, come già s'era visto negli attacchi d'aprile ed ottobre dell'anno scorso, ha provveduto poi l'inevitabile reazione iraniana. Comprensibilmente, dacché nella nostra area geografica la sua entità è mediaticamente assai poco riportata, conviene guardare a fonti internazionali al di fuori del nostro quadro d'alleanze: ad esempio la cinese Xinhua, la russa TASS, o magari qualche media mediorientale come Middle East Monitor o The New Arab, e così via. Certo, tale è stata quella reazione da non passar inosservata anche agli occhi di molti media occidentali, sebbene in questo senso la panoramica dell'informazione italiana appaia piuttosto desolante.

 

Nel difendere Israele dagli attacchi iraniani, che ha riportato danni ingenti a molti suoi obiettivi militari (i Ministeri della Difesa e degli Interni abbattuti a Tel Aviv, le basi di Nevatim, Kirya, Ramat David, Palmachim, ecc: nell'insieme oltre 150 aree colpite) anche la triade USA-UK-Francia ha partecipato con la propria aviazione, in particolare operando sui cieli giordani ed avvalendosi di varie basi. Alcune sono basi già usate per i raid israeliani su Gaza, come ad esempio quelle inglesi a Cipro: non è certo ignota, a tal proposito, la partecipazione dell'aviazione di Londra anche a supporto di quella di Tel Aviv per le sue frequenti incursioni sui cieli di Gaza o della Siria. Altre basi invece sono state concesse solo per un uso difensivo, come quella americana nel Qatar, e non offensivo: ciò può tuttavia genere anche delle diverse, opposte e pericolose interpretazioni del diritto internazionale. Dopotutto, proprio per il diritto internazionale (singolare, tra l'altro, che della sessione del Consiglio di Sicurezza ONU, richiesta dall'Iran dopo gli attacchi di Israele di ieri, qua in Italia i nostri media non ne facciano tuttora parola: non per nulla, visto che i termini scanditi sono stati di "aggressione israeliana ad un paese sovrano") quello compiuto da Israele è stato un illecito atto aggressivo, mentre la reazione dell'Iran è giudicata come una "legittima difesa". Quindi la famosa retorica dell'aggressore e dell'aggredito, che tanto abbiamo udito in occasione della guerra in Ucraina o anche degli “eccessi di difesa” israeliani in Medio Oriente, in questo caso non si può contrabbandare, a meno di non sovvertire la narrazione dei fatti e pure l'interpretazione del diritto.


Ecco perché è ora fondamentale disinnescare l'escalation, dato che l'Iran non soltanto intende (pure comprensibilmente) proseguire la sua Operazione True Promise 3 sugli obiettivi militari israeliani per tutto il tempo che vorrà, rifiutando gli inviti alla moderazione sin qui giunti, ma anche colpire le basi americane che provano la correità, ovvero la cobelligeranza, pure degli Stati Uniti e dei suoi due più stretti alleati. A tacer poi delle forniture d'armi recapitate ad Israele proprio prima che iniziasse la sua offensiva, del sabotaggio dei negoziati in Oman con l'uccisione anche del personale diplomatico iraniano che vi aveva partecipato, e delle varie dichiarazioni trionfali risuonate da Washington e da Tel Aviv per tutta la giornata di ieri, che sempre più suonano come ulteriori prove di colpevolezza (praticamente delle auto-accuse, soprattutto per la Casa Bianca che, dopo la prima offensiva israeliana, se n'è vantata e congratulata, rivendicandone i risultati). 

 

Purtroppo però questo atteggiamento manifestato dagli Stati Uniti e dagli loro alleati europei li priva di una reale credibilità in sede diplomatica; ed è un male per loro, perché con queste azioni si sono praticamente preclusi delle preziose possibilità. Hanno dimostrato di non credere al dialogo, ovvero alla possibilità che la crisi in Medio Oriente possa concludersi cercando una soluzione politica. Saranno dunque altri, che già ci sono, a delineare le pietre angolari del nuovo Medio Oriente; con tutto che, è facile da intuire, Stati Uniti ed alleati europei (come già abbiamo visto con altri schiaffi strategici presi, si pensi soltanto a come s'è risolta per la Casa Bianca la crisi dei dazi con Pechino) cercheranno poi come al solito di reinserirsi all'ultimo, implorando un ruolo ai tavoli negoziali: per scroccare quella “posizione” che salvi le "loro" apparenze e gli consenta di rivendere ai loro cittadini quel loro ruolo, tuttavia colpevole e declinante, come una grandiosa conferma della loro imprescindibile centralità internazionale.

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