
Da Jeddah giunge la notizia di un'intesa tra Stati Uniti e Ucraina per una tregua di trenta giorni; starà ora alla Russia dire la sua, con Kiev che confida nella capacità americana di strapparne il favore. Se è vero che ora "la palla è nelle mani dei russi", come detto dal Segretario di Stato Marco Rubio, è al tempo stesso vero che permangano dei punti assai ambigui, che proprio in occasione dei prossimi contatti tra Washington e Mosca verranno inevitabilmente messi a processo: stante l'impegno ucraino a firmare l'accordo sulle risorse minerarie, dietro cui in realtà si nascondono ben altri e più ricchi interessi, gli Stati Uniti rimuoveranno a Kiev l'attuale fermo agli aiuti militari, compresa la copertura nell'intelligence. Alla luce dell'attacco svolto con sciami di droni a Mosca proprio nelle ore di Jeddah, con la sola copertura satellitare europea certo non paragonabile a quella americana, o forse addirittura con un vero e proprio lancio “alla cieca”, si deduce che Kiev mantenga ancora una seria capacità d'influire negli accordi sul suo stesso futuro: è stato un segnale che i diretti interessati, americani, russi, non ultimi anche gli europei, dovranno saper interpretare in tutte le sue possibilità. Se non dubitiamo delle capacità interpretative dei primi due, possiamo lecitamente avere invece qualche riserva sugli europei.
L'Ucraina ad esempio può sabotare la tregua, o "altri" possono farglielo fare, ponendo i suoi alleati europei nelle condizioni di continuare a sostentare il conflitto contro le volontà degli altri grandi partner, americani e russi, con tutto ciò che ne va a derivare; si dà per inteso che gli "altri" possano essere sia gli stessi europei, compresi i partner non “eurocomunitari” inglesi, sia gli stessi americani, sia, cosa certo non impossibile, “schegge impazzite” o presunte tali all'interno dell'apparato politico-militare ucraino. Tutti quanti questi attori ed ispiratori non sono mai stati come oggi frammentati al loro interno e tentati dal ricorso a varie possibilità che potrebbero produrre risultati anche piuttosto sorprendenti nella natura dei loro rapporti reciproci. Dopotutto trenta giorni sono lunghi e possono verificarsi molte cose.
Una possibilità è che il segnale incarnato dall'attacco dronistico su Mosca, più che diretto contro i russi che comunque hanno riportato i loro danni ed abbattuto 337 dei velivoli ucraini lanciati, sia stato diretto agli americani, con cui la delegazione di Kiev s'è incontrata a Jeddah, e così pure agli europei. Si potrebbe, forse, leggere così: "possiamo ancora condizionare, a nostro ma a quel punto anche vostro danno, gli equilibri delle trattative; abbiamo ancora un discreto potenziale e potreste continuare a sostenerci anziché fare la pace sulla nostra testa; per effetto di questi nostri colpi Mosca probabilmente, anzi certamente, alzerà il prezzo con voi, e per questo motivo voi dovrete abbassarlo con noi; pertanto, le trattative dovranno vedere anche le nostre condizioni, anziché esser raggiunte tenendoci fuori dal tavolo". Ma nulla vieta che pure altri, per loro bocca, cerchino più o meno di dire quel concetto; se è quel concetto, poi, che si vuol veramente veicolare. E infatti, visto che a Jeddah pur sempre una trattativa è stata quella tra ucraini ed americani, i primi probabilmente sono riusciti a strappare ai secondi un riavvio delle forniture militari e della collaborazione tra le loro agenzie d'intelligence, in cambio del riconoscimento di Kiev alla prelazione di Washington sulle sue “risorse rare”.
Il conflitto in Ucraina, dunque, continuerà ancora per un po', perché difficilmente la Russia acconsentirà ad una proposta di tregua come quella abbozzata tra Ucraina e Stati Uniti. Presentandosi né più e né meno come una riedizione delle già viste Minsk 1 e Minsk 2, entrambe clamorosamente violate da Kiev, da Washington e dalla NATO, agli occhi dei russi presenterebbe tutte le condizioni per essere nuovamente violata come in passato. Verrebbe congelato il conflitto prima che sia troppo tardi per l'Ucraina, allontanandone la fine e rendendo nuovamente più ostici per Mosca il raggiungimento di quei risultati che ormai le sono ben più facilmente a portata di mano, dalla smilitarizzazione di Kiev all'annessione dei nuovi territori del Donbass, e via dicendo. In sostanza un autogol strategico, che la Russia non è disposta ad accollarsi con la facile previsione che alla proposta ucraino-americana di una tregua risponda con un secco diniego. Per il momento, questo è già certo, i russi si prenderanno tutto il tempo per rispondere, lasciando trascorrere ancora qualche giorno durante il quale proseguire i loro progressi militari sul campo: uno su tutti, la riconquista della sacca di Kursk, segnando la fine dell'invasione ucraina scattata nella scorsa estate con un bilancio per le forze di Kiev davvero draconiano.
Tuttavia, qualora tra russi ed americani si dovesse invece giungere ad una qualche forma d'intesa, per quanto debitamente rivista rispetto ai suoi termini attuali, per molti tra Stati Uniti ed Europa sarà una buona occasione per ripulirsi la faccia. Ad esempio, molti potranno pur sempre dire che la guerra sia terminata solo per merito di Trump, che ha voluto dar questa soddisfazione ai russi come si farebbe con dei bambini viziati, così che se ne stiano buoni e la smettano di dar fastidio, magari anche altrove. Dopotutto abbiamo un mondo dell'informazione molto allenato a far di queste capriole; e, quanto alla controinformazione, meglio il più delle volte stender un velo pietoso. Il bello è che nel frattempo, invece, almeno per l'Europa la guerra continuerà: quel che è peggio, anche qualora in Ucraina non si dovesse davvero più tirare un colpo. Il piano ReArm Europe infatti è di per sé un'opera assai ben pianificata e premeditata, pure troppo per presentarsi come un progetto tanto improvvisato, volto come già abbiamo detto a creare un immenso "stipendificio" a spese della collettività per le fortune di mediatori, consulenti, think tank, militari e produttori; un grande mostro burocratico prima ancora che militare, "manna dal cielo" per le grandi imprese americane ormai saldamente in joint-venture con le loro omologhe europee del campo militare.
In tal modo l'Europa continuerà a travasare fior di capitali verso gli Stati Uniti, garantendo loro il raggiungimento di sempre più sostanziose e redditizie masse critiche per l'apparato militar-industriale con cui prepararsi ai confronti strategici del futuro, in primo luogo con la Cina, ma non solo, dalla cosiddetta area dell'Indo-Pacifico allo stesso Continente Africano, dall'Artide all'Oceania, ed oltre. Nel frattempo, però, si parlerà di Trump come di un "presidente di pace"; anche se nel mentre, nel mondo, la conflittualità non sarà certo venuta meno, a cominciare da quella che reca proprio timbro e firma americani. Dopotutto i conflitti che oggi vediamo in corso in Africa Centrale e in alcune aree dell'Africa Orientale, da sud della regione dei Grandi Laghi alla Valle del Nilo e al Corno d'Africa, insieme a quanto in atto nell'est della RD Congo, sono proprio guerre israelo-americane. E pure in Medio Oriente, checché se ne dica, è ancora guerra israelo-americana quella che oggi vediamo combattersi in Siria, per interposta persona, tra Teheran e l'asse Washington-Tel Aviv. Proprio a quest'ultima dedicheremo a breve un nuovo articolo mirato.