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Trump, Vance e la demolizione di Zelensky: qualche chiave di lettura

2025-03-03 17:37

Filippo Bovo

Trump, Vance e la demolizione di Zelensky: qualche chiave di lettura

Febbraio è terminato regalandoci, col “linciaggio” in diretta televisiva dalla Casa Bianca del Presidente ucraino Zelensky da parte del suo omologo am

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Febbraio è terminato regalandoci, col “linciaggio” in diretta televisiva dalla Casa Bianca del Presidente ucraino Zelensky da parte del suo omologo americano Trump e del suo vice Vance, uno spettacolo a dir poco eclatante, certo sorprendente se rapportato a quanto finora eravamo stati soliti vedere. Fin dallo scoppio della guerra in Ucraina, dopotutto, era divenuto una sorta di cliché che Zelensky venisse ricevuto in ogni palazzo ed evento internazionale sempre coi più alti onori, senza alcuna forma di contraddittorio ad infrangerne l'aura d'intoccabilità e soprattutto con gran tributo di promesse, incoraggiamenti e nuovi aiuti per la guerra. Malgrado la crescente sfiducia che covava intorno a lui, anche tra molti stretti alleati che in ogni caso ben si guardavano dal darlo a vedere, il sostegno non era ufficialmente mai messo in discussione e men che meno il rispetto, in certi casi persino più elevato di quello riservato ad altre figure come ad esempio il Santo Padre (che, tanto sulla guerra in Ucraina quanto su quella in Medio Oriente, effettivamente, ha ricevuto più di qualche immotivata mancanza di rispetto). Tutto questo copione, evidentemente sempre più mal sopportato e meno convincente, è venuto meno con l'arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che in Occidente ha infranto la vecchia narrazione politica e mediatica innalzata dal predecessore Joe Biden fin dal 24 febbraio 2022, a tacer dei mesi precedenti. 

 

Beninteso: gli Stati Uniti nel buttare a mare Zelensky non rinnegano la loro condotta politica, ma semplicemente portano avanti, con coerenza, i loro interessi nazionali e strategici. Era in fondo nel loro interesse d'imporne il mito in Occidente, finché il conflitto in Ucraina aveva una convenienza, mentre ora che non ne hanno più bisogno se ne liberano, con brutale disinvoltura. Dopotutto, uno dei principali obiettivi del conflitto risiedeva nel sottrarre l'Europa dal suo crescente rapporto con la Russia: da Mosca acquistava troppa energie e materie prime a basso costo, esportandovi i suoi concorrenziali prodotti finiti, che per giunta godevano per le stesse ragioni di troppa buona diffusione anche sul mercato americano. Ora, invece, è il contrario o quasi: l'Europa ha negli Stati Uniti uno dei suoi più importanti fornitori d'energia, benché non proprio al medesimo e conveniente costo, e deve abbassare ancor di più le proprie pretese se spera di potervi mantenere le sue quote di mercato; in Russia, mercato in grande e fisiologica espansione, è tagliata in buona parte fuori e per di più si sono poste le basi perché anche con la Cina i suoi rapporti commerciali conoscano d'ora in avanti giorni sempre più difficili. 

 

I cinquanta, burrascosi minuti di conversazione con Zelensky, nello Studio Ovale della Casa Bianca, sono serviti a Trump e al suo vice proprio ad ottenere questo risultato: lavarsi le mani dell'Ucraina e del suo leader, e ripulirsi la faccia del coinvolgimento avuto nel sostenerne la guerra contro la Russia, per passare ora ad una nuova fase, consistente in una “pace tattica” con Mosca tesa ad incrementarne le divisioni dai suoi principali alleati e partner internazionali, in primo luogo nei BRICS e nella SCO. Certo, il disegno almeno se visto con gli occhi di ora appare quantomeno utopico, una rappresentazione a misura di destra neo-isolazionista e libertarian del solito wishful thinking a cui già c'avevano abituato i predecessori, Democratici di matrice liberal: dividere la Russia dal resto del mondo, cominciando proprio dai suoi più stretti alleati, era stato proprio quanto perseguito pure da Biden e dai suoi con la guerra in Ucraina, ad esempio facendo forti pressioni su Pechino affinché prendesse le distanze da Mosca (una strategia che, indipendentemente dall'impossibilità di poter venir coronata, stanti gli enormi rapporti sino-russi, era pure portata avanti in maniera a dir poco goffa, ad esempio accusando al contempo Pechino di contribuire a vario titolo allo sforzo bellico russo, insinuandone quindi una cobelligeranza, e per di più boicottando ogni suo tentativo di mediare nel conflitto, ad esempio stracciando l'accordo di pace proposto al G20 di Bali). E pure la prima Amministrazione Trump, dal 2016 al 2020, facendo sue le teorie ideologiche di Steve Bannon, aveva del resto vagheggiato una separazione della Russia, da riunirsi con gli Stati Uniti, l'Europa ed Israele in nome delle “comuni radici giudaico-cristiane”, in funzione non soltanto anti-islamica ma soprattutto anti-cinese. Quella vecchia Amministrazione Trump per inciso era la stessa che, seppur con altre figure intorno al suo oggi “redivivo” Presidente, aveva anche tenuto a battesimo l'elezione in Ucraina di Zelensky al posto di Poroshenko, ordinato ad entrambi di boicottare le mediazioni con Mosca ed avviato le forniture militari a Kiev che l'avevano in breve resa una “partner occulta” della NATO.

 

Anche i corteggiamenti all'indirizzo dell'India, per farne un proprio partner nella nuova “Via del Cotone”, con cui realizzare un'alternativa e una concorrente a guida americana della Belt and Road Initiative (qua in Italia solitamente più nota come “Nuova Via della Seta”) cinese, puntava nel suo sogno di sottrarre New Delhi dalla vicinanza con Mosca e Pechino a renderla un polo sempre più ostile per entrambi: non soltanto per la Cina, ma anche per la Russia, con cui negli anni della guerra in Ucraina al contrario i rapporti economico-energetici sono addirittura aumentati. Ora, tra le tante proposte e promesse della nuova Amministrazione, vi sarebbe quella che Stati Uniti, Russia e Cina simultaneamente riducano le proprie spese militari, intuibilmente per venir incontro proprio a Washington e al suo bisogno di combatter contro di loro ad armi pari, giacché non possono più permettersi le spese folli in campo militare che li hanno caratterizzati fin dal Secondo Dopoguerra. E' un'idea che potrebbe piacere molto a tanti astratti pacifisti, ma che cova in realtà degli inganni piuttosto grossolani: sono dopotutto gli Stati Uniti, e non certo la Russia o la Cina, ad aver basi militari in tutto il mondo, soprattutto ai confini delle due grandi potenze a cui si rivolge (basi che, tra l'altro, sono pure in espansione); mentre non risultano invece basi russe o cinesi intorno ai confini americani. E, anche per quanto riguarda gli stanziamenti destinati alla difesa, il discrimine rispetto a Russia e Cina è tale da vedere soprattutto gli Stati Uniti, prima di altri e più che altri, a dover procedere a tagli draconiani: nel 2023 Washington ha speso per le sue FFAA 916 miliardi di dollari, pari al 39% globale delle spese militari, contro i 296 della Cina e i 109 della Russia. Una riduzione del 50% delle spese a testa non porterebbe ad una situazione di parità strategica, ma semplicemente manterrebbe inalterato il vecchio e decadente status quo, vitale per gli Stati Uniti e finora puntellato da un loro vantaggio militare relativo ormai sempre più difficile da sostenere: difficilmente Mosca e Pechino sarebbero disposte a credere ad una simile trappola.

 

Per il resto, rimane il tema delle “terre rare” e degli altri grandi interessi americani in Ucraina, affermati fin dal 2014 (a tacer del prima) con grandi "campagne acquisti" nei settori minerari, energetici e industriali del paese. Molti di questi interessi sono già stati assicurati a suo tempo; altri sono nuovamente messi in forse dagli esiti del conflitto, ad esempio con le proprietà di grandi imprese americane (un solo nome, tra i tanti, Blackrock) oggi nei territori controllati dalle FFAA russe, altra buona ragione per cui Washington intenda oggi frettolosamente archiviare la pagina delle proprie responsabilità nella guerra in Ucraina per stabilire subito un nuovo modus vivendi con Mosca e soprattutto riprendervi a far affari; altri infine sono ancora tutti da imbastire, e anche in questo caso aver prima instaurato dei buoni uffici col Cremlino sarà essenziale per poterli portare avanti. Le cosiddette “terre rare”, forse molto sopravvalutate rispetto alla loro reale entità, sono in buona parte nei territori controllati da Mosca e, qualora cedano altri due capisaldi al fronte, vi sono pure buone possibilità che i russi si guadagnino anche quelle per il momento ancora in mano a Kiev. Quanto a Zelensky, che teoricamente doveva giungere a Washington per firmare un accordo che avrebbe dovuto garantire agli Stati Uniti una priorità nello sfruttamento di tutte queste risorse in cambio di nuovi sostegni, il suo ruolo è analogamente sopravvalutato: è un leader a fine corsa, che governa avendo da mesi esaurito il proprio mandato, e che a breve si troverà a vestire i panni di pressoché unico capro espiatorio di tutta la tragedia di questi ultimi tre anni. Anziché firmare un accordo che in sé, vista la precarietà di tutta la situazione, potrebbe anche non aver alcun valore oltre a quello formale, ha preferito rifiutare, rovesciando il tavolo e cercando il conflitto con Trump e Vance (e diversamente non poteva essere, dacché mai aveva fatto mistero di preferire una vittoria dei Democratici, per ovvie ragioni): ha chiesto loro nuovi sostegni per raggiungere la sua impossibile “pace giusta”, ma soprattutto ha fornito loro proprio quel pretesto di cui avevano bisogno (tirarsi fuori, con tanto di "sceneggiata mediatica", dal conflitto in Ucraina) e al quale fin da prima dell'incontro miravano. La trappola ha funzionato bene. Non c'è bisogno di Zelensky per un accordo che un altro leader dopo di lui, certamente con ben maggior autorevolezza e credibilità, potrà firmare al posto suo.

 

Dopotutto Trump ha già riservato a Zelensky epiteti poco cerimoniosi, attribuendogli per di più una scarsissima popolarità in patria ed invocando nuove elezioni per eleggere un nuovo Presidente, di cui ha bisogno per farlo sedere al tavolo coi russi e conceder loro la “resa”. Nulla di tutto ciò è un mistero. E a tal proposito una cosa che non dovrebbe sfuggire, della "demolizione in diretta televisiva" di Zelensky da parte di Trump e Vance, è proprio il segnale implicito che rivolge sia agli ucraini che agli europei. Ai primi, ed in particolar modo a quella parte dei vertici più legati a Washington, d'avviare un "cambio di passo" nella politica interna, di dar inizio al regime change. Da tempo, tra i parlamentari della Rada, è in atto la "campagna acquisti" per spostare molti voti, e guarda caso ora che il Presidente è tornato a casa a mani vuote si parla proprio di un suo impeachment. Ma di certo le pressioni per defenestrare Zelensky non si limitano solo ai settori politici, coinvolgendo certamente anche molti nell'intelligence e soprattutto tra i militari, a dir poco furibondi con la Presidenza per la situazione sul campo di battaglia. Ai secondi invece, ed in particolar modo alla Commissione Europea e alle odierne maggioranze di governo dei vari Stati membri, di non intromettersi troppo negli sforzi americani di estromettersi dal conflitto in Ucraina trattando direttamente con Mosca, ché altrimenti aggraverebbero la loro già non facile situazione; ma è un messaggio che in diversa misura si rivolge anche alle forze sovraniste europee, a seconda dei casi distribuite tanto nelle maggioranze quanto nelle opposizioni, affinché s'allineino maggiormente alla Casa Bianca rendendosi più utili alla sua visione politica di Europa “sodale, collaborativa ma funzionalmente inerte”. Le prossime settimane, regalandoci ulteriori e nuovi sviluppi, potranno senza dubbio dirci molto di più.
 

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