Ieri Israele ha dato ufficialmente il via all'operazione di terra su Rafah, sebbene le trattative con Hamas fossero ancora in corso. Il gruppo palestinese aveva accettato i termini di un accordo stabilito sotto la mediazione di Egitto e Qatar, e che prevedeva una tregua in un conflitto che si trascina ininterrottamente dallo scorso 7 ottobre; ma i rappresentanti israeliani, ritenendolo insoddisfacente nel fornir loro tutte le garanzie richieste, hanno preferito non accettarlo a propria volta. Restano ancora dei ristrettissimi margini affinché un accordo in extremis possa comunque esser raggiunto, sebbene le forze israeliane al momento siano di fatto ad un passo dal completare una piena presa di tutto il territorio della Striscia.
Nelle prime ore del mattino la 401esima Brigata israeliana è infatti giunta al valico di Rafah ottenendone il “controllo operativo”: in tal modo Israele può così “sigillare” la principale ed unica via rimasta per i collegamenti tra l'Egitto e la Striscia, su cui del resto già dal principio del conflitto non aveva nascosto le sue capacità d'intervento e boicottaggio con azioni militari soprattutto dall'aria. Non va infatti dimenticato che Israele controlli tutti i passaggi da e per Gaza fin dall'inizio della guerra, con Rafah che fino a questo momento si presentava come unica e parziale eccezione per il passaggio di pochi aiuti umanitari e la fuga d'altrettanto pochi civili. Il percorso, segnato dai ripetuti bombardamenti, non permetteva infatti passaggi agevoli o in buon numero, oltretutto difficili a sfuggire al controllo aereo. L'area ora sotto controllo israeliano corrisponde quindi all'intero “Asse di Filadelfia”, corrispondente a tutto il confine tra Gaza e l'Egitto, menzionato negli Accordi di Camp David del 1979; in base a quest'ultimi, Israele non può stazionare con alcuna unità militare presso la “Zona D”, equivalente ad una sottile striscia di terreno che circonda proprio la frontiera egiziana. Già da tutti questi aspetti si può facilmente intuire la serietà della situazione attuale, con l'insieme d'incognite che può generare: innanzitutto, il rischio che l'Egitto, che finora ha risposto alle costanti provocazioni israeliane senza uscire dal linguaggio diplomatico, di fronte alla violazione degli Accordi di Camp David si veda invece obbligato ad una reazione aperta, con uno scontro militare tra egiziani ed israeliani che vedrebbe ancor più precipitare le condizioni della popolazione di Gaza, a quel punto ancor più stretta tra l'incudine e il martello. Circa 1,4 milioni di persone si trovano in questo momento a Rafah, in pieno status d'emergenza umanitaria, e qualora Israele giocasse come più volte paventato la carta di spingerne quanti più possibile oltre il confine egiziano analogamente si presenterebbe una rottura degli Accordi del 1979.
Per il momento, dal Cairo preferiscono evitar di commentare l'arrivo delle forze militari israeliane a Rafah insistendo semmai sulla necessità che sospendano l'azione affinché si rilanci la via dei negoziati. La proposta avanzata da Egitto e Qatar ed accettata da Hamas prevede un “cessate il fuoco” a più fasi, con un parziale rilascio degli ostaggi in mano alle due parti ed un altrettanto parziale ritiro delle truppe israeliane a nord della Striscia; dopodiché le due parti, proseguendo la mediazione, procederebbero al rilascio di tutti gli ostaggi rimasti e ad un ulteriore ritiro israeliano dal territorio. L'accordo, prevedendo che le due parti si vincolino a reciproci compromessi, potrebbe anche funzionare se solo non fosse condizionato dalla condotta del governo israeliano, che sul voler comunque procedere ad un'azione su Rafah indipendentemente dall'esito dei negoziati non ha infatti mai fatto mistero: ciò, comprensibilmente, riduce notevolmente la fiducia riguardo ad una sua reale efficacia.
Si possono intuire le varie motivazioni che inducono Israele a puntare al pieno appannaggio del territorio della Striscia, indipendentemente dall'operato della diplomazia. Si pensi al ritrovamento al ritrovamento di centinaia di cadaveri sepolti all'ospedale Nasser al-Shifa di Gaza, e alle altre fosse comuni che ancora si continuano ad individuare in altri punti della Striscia finora segnati dall'azione israeliana, denunciato dall'Alto Commissario ONU per i Diritti Umani Volker Turk. Il conflitto iniziato il 7 ottobre finora è costato la vita ad oltre centomila persone, mentre le condizioni dei sopravvissuti non hanno fatto che precipitare. Israele punta a sbarazzarsi dei civili ancora presenti nella Striscia, ma anche a nascondere quante più prove possibili dei già avvenuti crimini di guerra e contro l'umanità, ad esempio ostacolando il lavoro degli operatori umanitari ed ONU ancora presenti. Il governo israeliano ha dichiarato che non riconoscerà i verdetti della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), rifiutandosi di consegnare i propri ufficiali responsabili, e dal canto loro gli Stati Uniti hanno minacciato di gravi conseguenze la stessa corte qualora procedesse con un mandato d'arresto a carico di Netanyahu. Sotto questo aspetto non deve sfuggire come il recente veto statunitense all'entrata a pieno titolo dello Stato palestinese all'ONU, con pieni ed inalienabili diritti, oltre ad impedire di fatto un arrivo alla soluzione dei due Stati blocchi pure la possibilità che i rappresentanti palestinesi possano direttamente appellarsi presso l'Assemblea e il Consiglio di Sicurezza ONU per l'adozione d'interventi ancor più vincolanti per il loro popolo. D'altronde, già ora le risoluzioni adottate non vedono il rispetto statunitense con Israele che pertanto riceve nei fatti un “disco verde” da Washington a poter continuare indisturbata la propria azione sul campo. Un forte biasimo internazionale è piovuto sugli Stati Uniti per questo loro atteggiamento, così come per il modo tutt'altro che democratico con cui sono state represse le manifestazioni e le occupazioni in molte università americane, con scene di violenza di cui si sono resi responsabili non soltanto le forze di polizia ma anche gruppi armati legati alla comunità ebraica statunitense, legati all'intelligence israeliana e lasciati liberi di procedere del tutto indisturbati dalle istituzioni locali.
Vi sono anche altre ragioni a spiegare perché Israele miri ad ottenere il pieno controllo della Striscia, trovando l'accordo de facto degli Stati Uniti. Una di queste è lo sfruttamento delle assai promettenti risorse energetiche del suo litorale, su cui in parte già in precedenza Israele estraeva gas in quantità. Tutta l'area marittima dal Libano al Delta del Nilo appare come una generosa sede di giacimenti di gas e petrolio, di cui Israele mira ad ottenere quante più quote possibili, anche in previsione della realizzazione di una nuova conduttura con cui acquisirebbe un ruolo di primo piano come determinante fornitore per i mercati europei. Il peso condizionante che avrebbe sui propri alleati europei, già oggi non proprio di secondo piano, ne risulterebbe comprensibilmente assai rafforzato. Al contempo, il pieno controllo della Striscia garantirebbe ad Israele la possibilità di crearvi in piena sicurezza il discusso progetto del Canale Ben Gurion, parallelo a quello di Suez e con cui di fatto si spezzerebbe il monopolio egiziano nel controllo delle rotte tra Mediterraneo, Mar Rosso e Oceano Indiano. Quest'ultima sarebbe letteralmente una manna, agli occhi dei suoi alleati occidentali ed in primo luogo proprio da Washington, per un rilancio pure della Via del Cotone, elaborata come risposta alla Nuova Via della Seta (BRI) cinese e tesa a dar vita ad un corridoio economico, produttivo e commerciale dall'India all'Europa fino agli Stati Uniti. Non manca neppure la classica ed immensa speculazione edilizia per il dopoguerra, che vede già oggi importanti nomi immobiliari israeliani coinvolti e la firma di numerosi contratti preliminari col governo Netanyahu.
Non appare a questo punto così difficile comprendere perché Israele non sia disposta a rinunciare al suo ruolo di “potenza occupante”, come sancito dal diritto internazionale e dall'ONU, e conseguentemente ad impedire in perpetuo con l'avallo dei propri alleati occidentali il riconoscimento dei legittimi diritti nazionali della popolazione palestinese. La conseguenza di questa politica, tuttavia, è che resterà altrettanto in perpetuo viva la causa principale della stessa questione palestinese, a sua volta nucleo principale di tutta la più vasta questione mediorientale. A duecento giorni dall'inizio del conflitto, con gli incalcolabili danni umanitari che finora ha comportato e col costante rischio peraltro in parte già avvenuto di un suo ulteriore allargamento ad altri fronti, può davvero il mondo ancora permettersi il ricatto di questo sordo ed egoistico unilateralismo israelo-statunitense?