Le incursioni statunitensi su obiettivi sciiti iracheni, in contrasto con la volontà delle autorità di Baghdad che anche per tale ragione hanno più volte reiterato la loro intimazione alle forze USA ad abbandonare il paese evacuandone le basi militari, non hanno ricevuto una particolare attenzione dai nostri media, e numerose sono le concause a poterlo spiegare. In primo luogo, una scarsa conoscenza dei fatti ed un'ancor più scarsa capacità di contestualizzarli, fatto in sé piuttosto grave se pensiamo che nel nostro paese dell'Iraq bene o male se ne parla almeno fin dal 2003, con la guerra a cui anche l'Italia ha partecipato; in secondo luogo, una nota e sempre più criticata, almeno a livello d'opinione pubblica, loro eccessiva dipendenza per non dir proprio sottomissione alle fonti statunitensi e, nel caso mediorientale, pure israeliane, purché delle più governative e belligeranti; in terzo luogo, una certa islamofobia di fondo che connota quantomeno una parte dei media nostrani, frutto avvelenato dell'11 settembre.
Tanto basta a spiegare perché gli attacchi statunitensi alle milizie sciite irachene, note come “Forze di Mobilitazione Popolare dell'Iraq”, siano stati derubricati a semplice vicenda locale, posta in ombra dalla certamente più mediatica guerra a Gaza o dagli attacchi degli Houthi intorno a Bab al-Mandab, e a danno di vaghi “formazioni terroriste filo-iraniane” o comunque ad entità descritte in modo non tanto dissimile. La notizia, d'altronde, nei giorni in cui l'Italia pareva concentrarsi soprattutto sulle novità canore di San Remo, non deve aver raggiunto molte orecchie, passando pertanto pressoché inosservata. Rimane comunque il fatto che non si possa parlare di “formazioni terroriste”, e men che meno che l'averle colpite costituisca poi un episodio tanto locale o periferico nel più ampio bacino di scontri e destabilizzazione che sempre più oggi va a connotare il Medio Oriente.
Le Forze di Mobilitazione Popolare nacquero in Iraq nel periodo in cui l'ISIS, allargatosi in larga parte del settentrione iracheno, con una rapida ascesa era giunto fino a Mosul, dove il suo comandante al-Baghdadi aveva proclamato infine il Califfato. A facilitare la penetrazione del Califfato avevano concorso vari fattori, ben spiegabili nel quadro dell'Iraq devastato dall'invasione statunitense e dalla successiva occupazione: col parziale ritiro delle truppe USA, per esempio, molti loro materiali bellici ed intere basi militari erano state letteralmente consegnate agli uomini di al-Baghdadi, col tacito fine che continuassero l'opera di controllo e destabilizzazione dell'Iraq. Agli occhi di Washington era importante che non riemergesse un Iraq autonomo e capace di riaffermare il proprio controllo su tutto il territorio, e vicino a Teheran; per di più in un momento in cui la partita siriana era ancora tutta aperta. Sfruttando la retrovia irachena, l'ISIS avrebbe infatti potuto estendersi maggiormente oltre il confine siriano, come effettivamente poi fu, impedendo a livello di terra il collegamento naturale tra Iran e Siria, irrealizzabile senza l'Iraq o con una sua parte comunque saldamente presidiata dal Califfato.
Con la caduta di Mosul del 10 giugno 2014, mentre in tutta l'area l'esercito nazionale iracheno si ritrovava privo d'ordini ed abbandonato al suo destino, e 1700 suoi cadetti di confessione sciita nel distretto di Tikrit venivano freddati dagli uomini dell'ISIS, in quello che sarebbe passato alla memoria come il “Massacro di Camp Speicher”, gli sciiti iracheni reagivano trovando in sé nuove forze per continuare la loro lotta. Avevano già patito la repressione del regime di Saddam Hussein, che ne sospettava la vicinanza con l'Iran, ed in seguito avevano dovuto confrontarsi anche con l'invasione da parte degli USA e dei loro alleati, con la conseguente occupazione del paese e tutto quel che ne era derivato; adesso si trattava di rispondere anche a questa nuova sfida che riguardava non soltanto loro ma l'intero paese. Così il 13 giugno l'Ayatollah al-Sistani, principale autorità religiosa nel paese, emanava una fatwa con cui dichiarava che tutti i cittadini iracheni capaci a combattere e a maneggiare armi dovevano offrirsi volontari per la difesa dell'Iraq, del suo popolo e dei suoi luoghi santi, unendosi alle forze di sicurezza nazionali: “Chi si sacrificherà per il proprio paese, per la propria famiglia e per il proprio onore sarà un martire”.
Per chi viva in Occidente, con diversi valori da quelli di molte culture mediorientali, è forse difficile comprendere il significato del martirio e cosa esattamente rappresenti la figura del martire, indipendentemente dalla bontà o meno della lotta per cui tale sacrificio sia avvenuto; non di rado proprio questa difficoltà nel comprenderlo è alla base di grandi errori di sottovalutazione dell'intensità che tali significati può dare nel tempo e nel modo alla lotta. I martiri, in quel momento, in Iraq già non mancavano e così neppure gli uomini capaci di combattere e manovrare armi: ragion per cui ad aderire all'appello dell'Ayatollah risposero più di un milione d'iracheni, dando vita proprio alle Forze di Mobilitazione Popolare. In esse confluirono immediatamente anche numerose altre formazioni preesistenti, che negli undici anni precedenti avevano combattuto contro le forze d'occupazione occidentali acquisendo così un'esperienza di combattimento che si sarebbe rivelata oltremodo preziosa per fronteggiare gli uomini di al-Baghdadi.
Le autorità di Teheran plaudirono alla decisione dei loro correligionari iracheni di fondare le Forze di Mobilitazione Popolare, garantendo loro pieno supporto politico, economico e militare; ma, pur essendo composte in gran parte da fedeli e combattenti sciiti, non avevano un carattere settario e riproducevano l'eterogenea composizione religiosa dell'Iraq, contando al proprio interno anche brigate formate da sunniti, cristiani e yazidi. Migliaia d'iracheni delle varie fedi, operando sotto le insegne delle Forze di Mobilitazione Popolare, trovarono la morte combattendo contro l'ISIS, contribuendo alla sua sconfitta. Il loro martirio li consacrò alla memoria dei loro concittadini, oltre a dare un enorme prestigio alle Forze di Mobilitazione Popolare anche fuori dai confini dell'Iraq: possiamo a questo punto facilmente immaginare cosa ciò abbia significato su vasti settori della società e dell'opinione pubblica non soltanto irachena ma di buona parte del Medio Oriente. Non a caso, nel novembre del 2016, forti del loro già consolidato prestigio, le Forze di Mobilitazione Popolare sono state istituzionalizzate nelle forze nazionali irachene, con un'apposita legge speciale votata dal parlamento di Baghdad che le riconosce come organizzazione indipendente e con una propria personalità giuridica, rispondente come ogni altro corpo al Comando Generale delle Forze Armate irachene. Per tale ragione, segue tutte le leggi militari, con l'eccezione della nomina da parte parlamentare del suo Comandante diretto e dei requisiti d'età ed istruzione per l'arruolamento.
Tutti questi elementi possono farci capire come i bombardamenti statunitensi non siano andati a colpire delle milizie terroriste operanti al di fuori del quadro della legalità, ma al contrario dei corpi effettivi dell'esercito nazionale iracheno, rispondenti alle autorità di Baghdad e non a quelle di Teheran con cui sono semplicemente alleate come del resto lo è oggi lo stesso Iraq. Tuttavia, eludere a questa precisazione permette agli ambienti mediatici e militari occidentali, in primo luogo statunitensi, di non esprimere un aspetto tanto chiaro quanto grave: ovvero, che a venir colpito dalle forze statunitensi sia stato un corpo dell'esercito di un paese come l'Iraq, che nel quadro del conflitto sorto a Gaza ha ulteriormente ribadito la propria ostilità ad Israele e la vicinanza a Teheran. Per giunta, un corpo che data la sua storia e natura gode di un profondo ascendente anche sulle altre comunità non soltanto sciite del Medio Oriente, dalla Siria all'Iran, dal Libano allo Yemen: per ragioni legate al già citato "meccanismo culturale" del martirio come all'affiliazione e all'alleanza su basi di “fratellanza”, colpirlo significa evocare il colpo anche su tutti gli altri e porli ancor più sul sentiero di guerra.
Se le incursioni statunitensi sull'Iraq mirano ad un “alleggerimento” del fronte del conflitto ruotante intorno a Gaza e Bab al-Mandab, il rischio è che al contrario portino ad un suo ulteriore accrescimento con un'estensione che non si potrebbe più forzosamente definire, come oggi, “regionale”. Per tale ragione, chi ha scatenato questo conflitto e tuttora continua a condurlo, unilateralmente alimentandolo ed accrescendolo, vale a dire Israele con gli USA e quanti in Occidente ancora lo seguono incondizionatamente, dovrebbe invece assumersi la responsabilità d'interromperlo e d'accettare il ricorso a vie diplomatiche che conducano ad una stabile soluzione della questione israelo-palestinese e al riconoscimento dei due Stati. Il mancato impegno degli USA, che ad ogni risoluzione continuano a porre veti su veti in sede ONU e che con queste operazioni intese come di “retrovia” mirano a coprire le spalle ad Israele, e il rifiuto di quest'ultima al dialogo, nonostante le recenti condanne che le sono state comminate dalla Corte di Giustizia Internazionale e l'accumularsi di nuove cause contro le sue autorità e forze militari, sta già conducendo ad una situazione che a breve non soltanto per loro sarà irreversibile ed incontrollabile.