Uno dei primi effetti del conflitto scoppiato a Gaza lo scorso 7 ottobre è stato quello di rendere meno praticabili i progetti geopolitici relativi alla creazione di una rotta alternativa alla BRI (Belt and Road Initiative o One Belt One Road, nota anche come Nuova Via della Seta) promossa da Pechino e che ad oggi, a dieci anni dalla sua messa in cantiere, può contare sulla partecipazione di oltre 150 paesi. La Nuova Via del Cotone, promossa come canale produttivo, economico e commerciale alternativo alla BRI da India, Emirati Arabi Uniti, UE ed USA, solo pochi giorni prima del conflitto veniva presentata come il perfetto paracadute per un Occidente che mirava a fuggire e contenere la Nuova Via della Seta (celebre in tal senso il caso del governo Meloni, con l'incontro della premier italiana col suo omologo indiano Narendra Modi ed il più o meno coevo ritiro dalla BRI, sotto il soddisfatto sguardo di Joe Biden), ma l'improvviso scoppio della guerra a Gaza ne ha segnato anche un pronto e silenzioso accantonamento.
Sulla Via del Cotone gravano poi una serie di forti condizionamenti; per esempio uno è quello di dipendere ad ora, quasi se non proprio del tutto, dalle rotte di mare anziché di terra, laddove la Via della Seta può al contrario contare tanto sulle une quanto sulle altre: da qui deriva non a caso il suo nome, One Belt One Road, che indica una “cintura” (marittima) e una “strada” (terrestre). Questa forte differenza, rimarcatasi nei dieci di sviluppo della BRI, presenta oggi un duro conto a quanti, in Occidente, intenderebbero farne a meno per puntare in via pressoché esclusiva proprio sulla Via del Cotone. Un altro forte condizionamento sulla Via del Cotone è quello di presentarsi, almeno per il momento, come un progetto soprattutto gradito agli USA, che immaginano di potersi servire dell'India in funzione anticinese esattamente come in qualche modo fu dagli Anni ‘70 con la Cina in funzione allora antisovietica. Tale progetto certamente vede la disponibilità di New Delhi, per le maggiori possibilità che le potrebbe dare in termini di sviluppo interno ed espansione commerciale nei mercati occidentali, oltre che di rafforzamento in spazi geopolitici e strategici attualmente contesi con Pechino, dall'Himalaya all'Indo-Pacifico; ma ciò difficilmente si potrà spingere fino al punto da tradursi in una riduzione o sottrazione della propria sovranità a vantaggio di un Occidente tutto sommato pur sempre spompato e soprattutto a cui danno, in ultima analisi, punta a crescere.
Tutti questi fattori portano così, almeno in attesa di un ritorno alla pace, all'archiviazione del progetto indo-americano. Non che altrove si resti inoperosi: più volte per esempio sono corse voci relative ad un canale alternativo a Suez, totalmente sotto controllo israeliano e quindi avvantaggiato agli occhi di USA ed UE dal non trovarsi in mano ad un partner giudicato sempre più lontano da loro e sempre più vicino a Mosca e Pechino come l'Egitto, ormai membro sia dei BRICS che della SCO. Si trattava del Canale Ben Gurion, che partendo da Aqaba sul Mar Rosso avrebbe consentito costeggiando il confine israelo-giordano di giungere nel porto israeliano di Eilat; naturalmente lo scoppio del conflitto ha ugualmente costretto almeno a soprassedere sulla realizzazione di una simile infrastruttura, che oltretutto nel suo tratto finale avrebbe troppo pericolosamente affiancato la Striscia di Gaza. Certamente il Canale Ben Gurion, qualora fosse andato in porto, avrebbe rotto il monopolio egiziano nel controllo dei traffici navali tra Oceano Indiano e Mar Mediterraneo, presentandosi come un perfetto corridoio per una Via del Cotone che almeno in Suez trovava una “fastidiosa” area di coabitazione con la via marittima della BRI. Non è casuale che ad incentivare il progetto, col rilancio anche del porto di Haifa, provvedano da un paio di anni a questa parte pure cospicui capitali indiani, come testimoniato dalla partecipazione del colosso indiano Adani in una redditizia partnership tutta indo-israeliana.
Proprio questo insieme ad altri fattori arricchisce la posta in gioco che oggi il conflitto di Gaza ha agli occhi di Israele: sottraendo quanto più spazio possibile alla Striscia ed ampliando il proprio confine meridionale, Tel Aviv potrebbe non soltanto blindare il suo progettato canale, dandogli anche un percorso più lineare, e rendendolo più conveniente e funzionale ai traffici navali e agli investitori, ma soprattutto abbinarvi insieme una non meno lucrosa rotta energetica anch'essa al momento tutta in buona parte teorica. I giacimenti israeliani, sommati a quelli al largo delle coste di Gaza e del Libano, possono fare di Tel Aviv un nuovo ed importante fornitore d'energia per il mercato europeo, in concorrenza a produttori già affermati come Egitto, Algeria, Azerbaigian, e via dicendo. Non è un mistero che il progetto, fortemente sponsorizzato per tutto il biennio 2022-2023 in concomitanza con la guerra in Ucraina e la relativa riduzione europea dalle importazioni di gas russo, si trovi al momento compromesso proprio dalla guerra in corso, che non a caso Israele mira a vincere a qualunque costo.
Dunque, oltre alle rotte marittime e terrestre, troviamo anche quelle energetiche. Eppure le turbolenze ormai propagatesi da Gaza fino allo Yemen suggeriscono, almeno per le rotte marittime ed energetiche transitanti per quelle precise aree, una loro scarsa praticabilità. Il rilancio delle rotte terrestri ne risulta così inevitabilmente implicito; ed in questo senso il vantaggio goduto dalla Via della Seta, e la sua valenza per l'interscambio commerciale, si presentano come inattaccabili. Non di meno si può dire anche per le stesse rotte energetiche, visto che le navi petroliere e gasiere occidentali in transito lungo il Mar Rosso hanno rappresentato e possono continuare a rappresentare un facile bersaglio per gli attacchi degli Houthi; mentre a causa dell'incendio a Gaza e dintorni anche l'interesse strategico europeo verso la rotta energetica israeliana, con relativa disponibilità in termini d'investimenti, può conoscere un pregiudizievole declino. I mutamenti geopolitici che l'incedere di questo conflitto potrà fornire nel quadrante mediorientale, e così pure in tutti quelli circostanti, sono dunque intuibilmente destinati a rivestire un peso epocale, ben oltre il temporaneo o il transitorio.