Nel 1985 un giovane Xi Jinping, allora segretario del Comitato del PCC della Contea di Zhengding, giunse in visita a San Francisco. Una bella foto, pubblicata da autori tra cui il giornalista ed analista politico-economico Shen Shiwei, in forze presso il Center for China and Globalization, ha circolato proprio in questi giorni nei media e nei social.
Da allora sono passati molti anni e sono cambiate tante cose. Gli Stati Uniti, a quel tempo, erano in pieno edonismo reaganiano, presi dalla mania del confronto con la Libia di Gheddafi a cui stavano per assaltare il duro colpo dei bombardamenti di Tripoli e Bengasi dell'anno dopo e da quella delle “guerre stellari” contro il nemico sovietico, bollato come “Impero del Male” su cui qualche anno dopo avrebbero intonato il proprio trionfo. La Cina, dal canto suo, aveva avviato da alcuni anni il suo percorso di grandi e coraggiose riforme che chiudevano con le esperienze del decennio precedente, da cui indubbiamente il Partito Comunista aveva acquisito delle profonde lezioni, e stava conoscendo un'effervescenza sociale ed economica che nei tempi a venire si sarebbe manifestata in modo ancor più rivoluzionario. Certamente erano due paesi, allora come oggi, nettamente all'opposto sia come visioni dell'esterno che condizioni all'interno, con quest'ultime che addirittura si sono nel frattempo ribaltate: se allora erano gli Stati Uniti il partner tecnologicamente, economicamente e politicamente forte, tale ruolo è oggi invece detenuto dalla Cina, con la controparte americana costretta di malavoglia ad incassare le sempre più accresciute distanze.
Il 14 novembre, mentre in Italia calava la notte, a San Francisco il Presidente Xi Jinping è atterrato nuovamente, per partecipare al Vertice APEC e per un incontro a margine col suo omologo Joe Biden, espressamente richiesto proprio dalla parte americana ma certamente gradito ed auspicato anche da quella cinese. E' intuibile che vi siano delle motivazioni a giustificare tale concitazione da parte americana, e non risulta piuttosto immaginare quali possano essere: gli Stati Uniti, oggi, hanno bisogno di uscire dalle secche in cui già si dibattono e che in futuro potrebbero essere persino peggiori qualora non venga prima intrapreso un rapido cambiamento di rotta. A causare il loro grave sbandamento, militare, politico, economico, strategico, diplomatico, è stato anche il precedente e reiterato rifiuto ad intraprendere una condotta più costruttiva coi propri interlocutori, in primo luogo proprio con la Cina con cui vi è stata un'alternanza d'intese su alcuni temi e rifiuti su altre. La possibilità che da questo incontro possa inaugurarsi un “disgelo” a beneficio dell'intera comunità internazionale è quindi ben più che augurabile.
Alcuni elementi concorrono ad indicare la grande importanza dell'evento: ad esempio, è il primo incontro di tale profilo da quando Joe Biden è in carica come Presidente degli Stati Uniti. Pure questo, considerando che la sua Amministrazione ha già consumato il grosso del proprio tempo, fa capire quanto grave sia stato approccio americano finora perseguito, volto ad uno scontro frontale contro la Cina così come contro la Russia e gli altri loro alleati, spesso alleati anche della stessa Washington. Una serie di elementi possono essere presi in considerazione per poter iniziare ad appianare gli attuali dissapori sino-americani: ad esempio maggior chiarezza, con un impegno vincolante, sulla questione di Taiwan e del Mar Cinese Meridionale, su cui finora gli Stati Uniti hanno solo contribuito ad incrementare la tensione sul fronte del Pacifico. In questo senso, l'Amministrazione americana e i suoi alleati occidentali sembrano accusare una regia schizofrenica, con le loro governance divise tra “falchi” che vorrebbero portare avanti il “muro contro muro” con Pechino, ad esempio perseguendo il decoupling dalla sua economia per preparare l'Occidente ad una futura guerra con la Cina nel giro di un decennio, e “colombe” che invece vorrebbero adottare la linea della “coesistenza pacifica”.
Non sono tuttavia soltanto le tensioni nello Stretto di Formosa e nei dintorni a turbare i rapporti tra Washington e Pechino, ma anche ed ancor più il principio di “una sola Cina” che fino ad oggi gli Stati Uniti non hanno pienamente implementato. Washington dovrebbe insomma applicare fino in fondo la Risoluzione ONU 2758/1971 e i tre comunicati congiunti Cina-Stati Uniti del 1972, 1978 e 1982, evitando di portare avanti un riconoscimento di Taiwan come entità statale autonoma ed interrompendo la vendita di proprio armamento al governo di Taipei esattamente come l'Amministrazione Reagan a suo tempo s'era impegnata a fare. Se gli Stati Uniti, come il resto della comunità internazionale, riconoscono di diritto Taiwan come parte integrante del territorio cinese, allora non hanno più motivo dopo quarant'anni di continuare a contraddirsi trattandolo di fatto come un paese a sé stante. Nel frattempo, l'economia dell'Isola è sempre più integrata con quella della Madrepatria continentale, mentre la condotta sin qui perseguita dal governo guidato dai democratici ha scatenato il malcontento di ampie parti dell'opinione pubblica interna, tanto che il prossimo anno potrebbe vincere la coalizione guidata dal Kuomintang. Qualora fosse così, il dialogo tra le due sponde dello Stretto potrebbe riprendersi o quantomeno si porrebbero migliori condizioni per una sua ripresa.
Un altro aspetto su cui gli Stati Uniti dovranno riflettere è quello delle gravi conseguenze generate dalla politica di protezionismo forte attuata da Trump e non certamente mitigata dal suo successore. Il bando di Google a grandi colossi come Huawei ha avuto come unico risultato la nascita di un nuovo concorrente per Android come ArmonyOS, quello da altri progetti che potevano essere congiunti come ad esempio la corsa allo spazio nelle sempre maggiori capacità di Pechino di portarli avanti in autonomia, ad esempio col progetto di una nuova stazione spaziale, ecc; mentre sul 5G abbiamo visto che le soluzioni proposte dai colossi americani hanno potuto attecchire, nei paesi alleati di Washington, soltanto grazie all'intimazione americana di non far passare quelli della concorrenza cinese di Huawei e ZTE. Pure i dazi commerciali non hanno sortito effetti migliori, visto che il commercio dalla Cina non è comunque calato mentre ne sono invece saliti i costi, soprattutto per i consumatori e gli importatori occidentali, americani in primis.
Sperare, come finora manifestato dall'Amministrazione Biden, che il dialogo con Pechino possa basarsi unicamente su determinati temi, come ad esempio la lotta al cambiamento climatico, escludendo tutti gli altri, appare dunque un agire piuttosto incompleto e soprattutto destinato ad intrappolarsi in un vicolo cieco. Osteggiare la Belt and Road Initiative (BRI), per gli Stati Uniti e i loro alleati più fidati, equivale poi sempre più ad isolarsi dal resto del consesso internazionale, se consideriamo che già oggi vi fanno parte ben 155 paesi al mondo. Difficilmente i paesi occidentali, e gli Stati Uniti che ne sono maggiore guida, potranno continuare ad ignorare la portata dei cambiamenti in atto e il loro impatto sulla realtà, che vanno a tradursi in nuovi equilibri e rapporti di forze nel mondo: solo agendovi realisticamente e responsabilmente sarà per loro possibile potervi continuare a recitare un ruolo di graditi protagonisti e non di meri e sempre meno rilevanti comprimari.