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Da Tbilisi a Seul: rotte e passaggi, minerali e tecnologie. Le paure di Washington

2024-12-05 18:14

Filippo Bovo

Da Tbilisi a Seul: rotte e passaggi, minerali e tecnologie. Le paure di Washington

In questi giorni sentiamo un tintinnar di sciabole da varie parti del mondo, e tanto sono disparate le località da cui questi stridori provengono da m

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In questi giorni sentiamo un tintinnar di sciabole da varie parti del mondo, e tanto sono disparate le località da cui questi stridori provengono da mandare in confusione molti di noi, magari indirizzandoci verso analisi a dir poco azzardate. Colpisce ad esempio il golpe strisciante in Georgia, paese che a certe turbolenze interne non è nuovo, almeno a guardare dalla sua storia recente: tutti si ricorderanno della Rivoluzione delle Rose che il 23 novembre 2003 letteralmente precipitò l'allora Presidente Eduard Shevardnadze, già capo della diplomazia sovietica sotto Gorbaciov, fuori dal governo del paese. Era una “rivoluzione colorata”, una delle tante avviatesi con l'Amministrazione Bush jr., dal Libano al Kirghizistan, fino all'Ucraina, finanziate da strutture come la NED e la Open Society e che di lì a breve avrebbe messo la Georgia nelle mani di un fidato segugio di Washington come Mikheil Saakashvili. Il tragico esito della guerra che questi avrebbe intentato contro la Russia per riaffermare il controllo sulle recalcitranti Abkhatia e Sud Ossetia, in quella che essenzialmente era un'opaca questione di controllo delle rotte energetiche nel Caucaso tra Mosca e l'Occidente, ugualmente è ben noto: Saakashvili e il suo governo non sarebbero durati a lungo dopo la rovinosa sconfitta militare riportata nel 2008, rifacendosi comunque per un discreto periodo di tempo una vita dorata in Occidente, fino a riciclarsi pure in affari non certo più puliti. Ha girato tra Georgia, Stati Uniti ed Ucraina, dove s'è distinto per l'attivismo a favore della rivoluzione colorata di Piazza Majdan del 2014, alternando processi e prigione a momenti di gloria, come la carica di ministro e quella di governatore di Odessa; ma gravi, gravissime, sono state anche le accuse nel frattempo ricevute, tra cui quella di traffico d'organi. Oggi, sebbene per l'Ucraina sia un suo dirigente politico, come tale gradito e protetto da Zelensky, si trova agli arresti e sotto processo in Georgia, dove i suoi problemi con la giustizia non s'erano ancora esauriti ed aveva avuto l'imprudenza di ritornare.

 

Adesso, invece, in Georgia sono altri fatti a far maggiormente discutere, e riguardano proprio quelli di una nuova rivoluzione colorata che in apparenza sembrerebbe avere dinamiche davvero simili a quella di Piazza Majdan. Tuttavia, se nel 2014 a Kiev vi era un Presidente come Yanukovich, neutrale benché considerato di politiche filorusse, al punto da venir accusato d'essere un "burattino del Cremlino", con un'opposizione euro-atlantista sostenuta da leader americani ed europei in piazza, in questo caso la situazione appare leggermente diversa. A Tbilisi infatti è la Presidente, Salomé Zourabichvili ad aver posizioni euro-atlantiste e a fomentare direttamente la piazza presidiata dalle opposizioni, cercando a tutti i costi di portare avanti un “golpe bianco” contro la coalizione uscita vincente dalle urne, “Sogno Georgiano”. Una rivoluzione colorata, dopotutto, si può fare in vari modi e teoricamente, qualora goda di saldi appoggi nei vertici istituzionali, il successo può risultare più facile da conseguire. Ma non sempre è così, e quanto avvenuto in Venezuela ce lo potrebbe ben ricordare: il Presidente del Parlamento Guaidò, che pur tentò di rivendicare a sé la guida del paese ottenendo quantomeno il riconoscimento dei paesi occidentali, alla fine è andato ad infittire l'elenco dei golpisti falliti, ed è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. E' riuscito a portar via un po' di fondi sovrani del paese, investiti all'estero, ma non è stato in grado di garantire ai suoi “committenti” il pieno appannaggio sul Venezuela e così alla fine è stato lasciato da parte. Tutto questo per dire che anche in Georgia non necessariamente il golpe strisciante di questi giorni potrebbe andare a segno, anche perché la volontà popolare non par proprio assecondare i desideri di quanti sono rimasti all'opposizione, né della Presidente a sua volta dagli indici di gradimento sempre più bassi. Tuttavia possiamo star certi che, dinanzi ad un simile fallimento, pochi in Occidente gioiranno, a cominciare da media e politica.

 

Sotto questo aspetto, fa riflettere il doppio standard applicato invece nei confronti di un altro tentato golpe, come quello occorso in Corea del Sud un paio di giorni fa: tutti abbiamo assistito al Presidente Yuun Suk-eol, indubbiamente non molto gradito all'opinione pubblica e alla guida di un paese che sempre più accusa i morsi di una crescente crisi sociale ed economica, annunciare l'applicazione della Legge Marziale in diretta televisiva. Se molti in Occidente erano preparati a scene di caos dalla Georgia, data la reputazione non proprio tranquilla che la regione del Caucaso s'è guadagnata negli anni, a causa di tensioni fomentate dall'esterno per non troppo confessate ragioni strategiche (ci passano gli oleodotti e i gasdotti, la Belt and Road e i nuovi percorsi tra Russia ed Iran, a farne uno snodo cruciale tra Mar Nero e Mar Caspio, ovvero tra Europa ed Asia Centrale, pertanto prioritario per i rapporti tra Oriente ed Occidente: potervi mettere il cappello, per gli Stati Uniti e la NATO, significherebbe condizionare enormemente gli interessi economici e la sicurezza nazionale d'intere nazioni, dalla Turchia all'Iran, dalla Russia alla Cina, oltre a garantire un più sicuro controllo sulla stessa Europa), molto meno lo erano nel caso della Corea del Sud, forse troppo ingenuamente immaginata come una sorta di nuovo paradiso in cui tutto, diversamente da casa nostra, va sempre bene. In molti hanno pensato che le motivazioni del tentato golpe a Seul si dovessero davvero alla necessità di “combattere il Comunismo”, come dichiarato dal Presidente, ovvero al contrasto delle influenze della Corea del Nord sulla vita politica ed istituzionale del paese. Qualcuno, da lì, ha elaborato la lettura che la Corea del Sud si preparasse alla provocazione verso la sorella del Nord, magari in funzione anti-russa: dopotutto le notizie degli aiuti militari e dei soldati nordocoreani a Mosca in Occidente ha smosso le fantasie di tanti, ed alimentato una ricca letteratura. Ma le ragioni, semmai, sono da cercarsi altrove.

 

Lasciando perdere la dinamica davvero piuttosto teatrale del fallito golpe (l'annuncio del Presidente e i militari mandati in Parlamento per poi tornar indietro; i parlamentari che frattanto hanno respinto la Legge Marziale all'unanimità e il Presidente che a quel punto deve indire la riunione di Gabinetto per ritirarla), è facile da comprendere che a motivarlo sia stato soprattutto un sotterraneo “tira e molla” tra ambienti sudcoreani ed americani su cosa fosse più opportuno fare a fronte di una situazione che evidentemente, a Washington, ritengono che stia sfuggendo sempre più di mano. Washington teme di perdere Seul a vantaggio di Pechino: l'economia sudcoreana, votata alla produzione tecnologica e in cerca di partnership capaci di mantenerla al sempre più veloce passo col resto del mondo, proprio come Taipei guarda con più interesse a quel che può offrirle la Cina anziché ai vecchi colossi americani, destinati ad un futuro non proprio dei più rosei. I commerci e le cooperazioni tecnologiche tra Cina e Sud Corea, affermatisi nel tempo, sono al pari di quelli tra l'Isola di Taipei e la sua Madrepatria un segnale assai allarmante per chi, da Washington alla Silicon Valley, guarda con galoppanti timori alla perdita del vecchio “vantaggio relativo” finora detenuto a livello internazionale. I vari boicottaggi portati avanti dalle Amministrazioni Trump e Biden non sono riusciti a frenare la crescita cinese nella costruzione di propri sistemi operativi e microprocessori, e proprio com'era stato per la corsa allo spazio anche in questo caso si profila sempre più rapidamente il sorpasso da parte di Pechino. Se a Washington vorranno ricostruire una “catena globale del valore” in grado di mantenere almeno temporaneamente il passo con Pechino, dovranno assicurarsi in pianta stabile il monopolio su Corea del Sud, Giappone e Taiwan, che dispongono di materie prime preziose come le terre rare e di produzioni ad alto valore tecnologico. Sempre per lo stesso motivo, non potranno fare a meno d'altri paesi fornitori, su cui ugualmente hanno intensificato negli anni le loro pressioni per riottenerne un controllo politico: si pensi alla Bolivia, ricca di litio, tanto da aver indotto Elon Musk per primo a sponsorizzarne l'ultima e non proprio del tutto riuscita… rivoluzione colorata.

 

Assicurarsi il controllo di questi paesi, nel caso specifico Corea del Sud, Giappone ed altri, servirebbe pure in un'ottica militare: già esiste un organismo come l'AUKUS, per il Pacifico meridionale, sorto dichiaratamente con funzioni anticinesi, e così pure s'è parlato in seguito di una “NATO del Pacifico” che vada a coinvolgere proprio Tokyo e Seul. Non è dunque solo un controllo a fini tecnologici, fermo restando che pure per un efficiente scudo militare senza supremazia tecnologica difficilmente si può sperare d'andar tanto lontani: e questo pure gli ambienti strategici americani lo sanno e lo temono. Ma, tornando a parlare di terre rare e di processori, non deve sfuggirci che proprio in questi giorni l'Amministrazione Biden abbia annunciato  tra i suoi ultimi atti il blocco di 140 società cinesi produttrici di circuiti elettronici di varia gamma, essenziali per la competizione in settori come l'Intelligenza Artificiale (IA). Tra i colossi colpiti spiccano nomi già colpiti da altre sanzioni ma anche molti di nuovo, da Huawei a Naura, da ACM Reserarch a Piotech, e via dicendo; l'obiettivo dichiarato è espressamente quello di “ridurre la capacità cinese nell'ambito delle tecnologie avanzate” in nome della “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti, che in tale contesto è da leggersi come “mantenimento del proprio predominio mondiale come unica grande superpotenza”. La sua entrata in vigore è prevista per il 31 dicembre, e difficilmente vien da pensare che tale provvedimento verrà visto come un inciampo dal nuovo inquilino della Casa Bianca. Una mossa del genere, tuttavia, non può non comportare l'adozione di simmetriche contromisure da parte cinese: dopotutto già oggi Pechino detiene il 60% della produzione globale di metalli e minerali necessari per l'industria dei processori e dei conduttori, oltre a disporre delle competenze tecnologiche per poterli sviluppare nel modo migliore. Così, in risposta alla mossa americana, la Cina ha bloccato l'esportazione di minerali come gallio, antimonio, germanio ed altri materiali necessari alla loro trasformazione; ma potrebbe essere solo un primo anticipo. Tutti questi materiali sono indispensabili non solo per l'informatica, ma anche per altre produzioni tecnologiche come quelle relative alle rinnovabili o ai dispositivi per la difesa, altra materia assai sensibile alle orecchie di Washington. 

 

Insomma, forse adesso abbiamo un'idea un po' più chiara del perché del tentato golpe a Seul: ovvero riportare indietro l'orologio della storia, ai vecchi presidenti dittatori che governarono il paese fino alla fine degli Anni ‘80, fedelissimi di Washington nel “contenimento” della Cina e del Comunismo, da tradursi però oggi in “crescente superiorità tecnologica cinese”. Dopotutto, come abbiamo già detto, oltre alla Cina, a livello mondiale solo Giappone, Corea del Sud e Taiwan possono assicurare certe produzioni e lavorazioni: e di quest'ultime gli Stati Uniti ne hanno sempre più bisogno. Il declino sarebbe altrimenti rapido e vicino; peggio ancora, impossibile da arrestare. Assicurarsi il controllo delle risorse per mantenere il vantaggio sulle potenze emergenti, dopotutto, era quanto già veniva descritto nel documento per “Un Nuovo Secolo Americano” che divenne l'abbecedario dell'agenda politica neocon dell'Amministrazione Bush jr., che anche i successori democratici o repubblicani che non fossero non hanno mai davvero abbandonato o rinnegato, ma semplicemente riadattato ai nuovi tempi e alle nuove evenienze. E' lo stesso principio per cui, mentre ambienti trasversali tra Stati Uniti e Corea del Sud hanno agitato le acque a Seul, altri trasversali tra Washington, Bruxelles e Tbilisi scaldano i motori di una rivoluzione colorata in Georgia per porre una nuova ipotetica su un'area tanto strategica per i traffici e i collegamenti tra Oriente ed Occidente come il Caucaso.

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