Pochi giorni fa il Ministro degli Esteri cinesi Wang Yi ha dato un suo commento delle recenti sanzioni statunitensi ai prodotti cinesi, su cui andranno ad assommarsi maggiori tariffe doganali. Tali sanzioni, com'è noto, sono unilaterali e vanno ad aggiungersi ad altre che già condizionavano lo stato dei commerci tra Cina e Stati Uniti, testimoniando una volontà più politica e propagandistica di Washington in piena campagna elettorale che una reale capacità di scalfirne la crescente portata. Basti solo pensare che i dazi già imposti dall'amministrazione Trump, che vanno ora ad inasprirsi con le nuove misure varate da Biden, hanno avuto come effetto non quello di scoraggiare le importazioni statunitensi dalla Cina, dato che sono persino cresciute, ma semplicemente di renderle più costose ai propri cittadini. In definitiva, una mossa ben più che autolesionista per gli Stati Uniti, contraria ai principi del commercio internazionale e pure all'idea del libero mercato che tuttavia Washington per lungo tempo aveva predicato allorché era ancora la principale animatrice economica della globalizzazione.
I tempi sono però cambiati, e oggi al contrario sempre più a Washington come in Europa si predica la “deglobalizzazione”, il “decoupling”, che mirerebbe letteralmente a sigillare i mercati occidentali dal commercio con la Cina, in modo da riaccentrare capitali e produzioni negli Stati Uniti, soprattutto a danno del Vecchio Continente che insieme a pochi altri nella nuova dottrina strategica statunitense finirebbe sempre più col ridursi ad una mera colonia commerciale. Così si puntellerebbe il vecchio ordine unipolare occidentale, riaffermandovi all'interno delle sempre più strette gerarchie, con l'obiettivo di rafforzarlo quanto basta a sorreggere un sempre maggior confronto e scontro con la Cina. Se in passato erano l'Atlantico e l'Europa a costituire il terreno dello scontro tra Washington e i suoi avversari del “secolo breve”, a partire dal campo socialista guidato dall'URSS, oggi invece nelle prospettive statunitensi la nuova frontiera del conflitto è nel Pacifico e nell'Asia. Ne siano pure prova le costanti spinte statunitensi su Taiwan, sia nel portare avanti la vendita di armamenti a Taipei che nell'intervenire con proprio naviglio nell'area con una linea di provocazione che va ben oltre l'aspetto diplomatico per abbracciare quello economico e militare.
In una simile atmosfera, l'intervento di Wang Yi era conseguentemente richiesto ed auspicato da più osservatori, sebbene in alcuni suoi aspetti pure prevedibile. Ne ha parlato, e probabilmente non è stata una scelta del tutto casuale seppure condizionata dal fatto che non prima o in altre occasioni aveva avuto modo di farlo, lo scorso 15 maggio, nel suo incontro col Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri del Pakistan, Mohammad Ishaq Dar, durante la quinta piattaforma di dialogo interministeriale tra Cina e Pakistan svoltasi a Pechino. Qualcuno penserà, forse eccedendo in fantasia, che parlarne a margine dell'incontro tra Cina e Pakistan, quest'ultimo un tempo uno stretto alleato di Washington seppur da sempre anche in buoni rapporti con Pechino, costituisca già di per sé un messaggio politico: dopotutto, se un tempo Islamabad era più vicina agli Stati Uniti, con cui il rapporto è calante, oggi pare invece prediligere il rapporto con la Repubblica Popolare, al contrario crescente. Tuttavia, lasciando perdere le letture più “esoteriche”, il discorso di Wang Yi è stato estremamente concreto.
Come ricordato da Wang Yi, negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno sempre più introdotto sanzioni unilaterali, abusando del processo di revisione delle tariffe della Sezione 301, oltre ad osteggiare a più livelli i normali rapporti con la Cina in ambito economico, commerciale e tecnologico. Questo comportamento, che appare a dir poco padronale ed irresponsabile, esprime da una parte la visione statunitense dei rapporti con le proprie controparti, mettendone in luce gli aspetti meno presentabili, ma al tempo stesso anche la sua fragilità ed insicurezza nel gestire le relazioni internazionali, su cui evidentemente non riesce più a detenere quella sicura presa egemonica che li rassicurava nel passato. Con tali azioni, gli Stati Uniti non riaffermano e non mettono al sicuro il proprio predominio, ma semmai complicano il normale funzionamento del commercio globale e delle catene del valore necessarie al buon funzionamento di un'industria oggi sempre più globalizzata. Per giunta, nemmeno ostacola la corsa tecnologica cinese, come auspicato da Washington, giacché proprio a causa di tali continue limitazioni al commercio e alla cooperazione tecnologica le capacità delle varie industrie cinesi di superare i preesistenti gap si sono ulteriormente rafforzate. Basti pensare solo alle costanti novità in materia di microprocessori e semiconduttori, fino agli esempi più eclatanti relativi a settori come l'aerospaziale.
Nel mentre, il WTO ha concluso che la Sezione 301 relativa alle tariffe costituisce una chiara violazione delle sue regole e di quelle del commercio internazionale. Per giunta, instaurando un approccio che va a danneggiare gli interessi propri e degli altri paesi, gli Stati Uniti si pongono pure nello scomodo ruolo di passare da fondatori storici del WTO a suo massimo violatore delle norme, perdendovi così prestigio e capacità di guida. Rivelandosi sempre antistorico, l'approccio unilaterale e protezionista finisce soltanto col danneggiare se stessi oltre a paesi terzi ed incolpevoli, rendendo sempre più indispensabile il ricorso ad un maggior senso di responsabilità.
Anche le motivazioni con cui Washington ha tentato di giustificare i propri provvedimenti appaiono poco difendibili. Si pensi ad esempio al concetto della “sovracapacità produttiva cinese" soprattutto nei settori più strategici, come quelli dei veicoli elettrici e delle nuove energie, più volte scandito dai suoi esponenti come la Segretaria al Tesoro Janet Yellen, o il consigliere senior per la politica climatica John Podesta in occasione del recente gruppo di lavoro Cina-USA sul rafforzamento dell'azione per il clima. Si tratta di un alibi con cui da una parte occultare le forti deficienze statunitensi nel campo dell'innovazione su tali settori così come nell'industrializzarli, ad esempio nel campo dei veicoli elettrici di media e bassa fascia, e dall'altra per poter portare avanti la politica del protezionismo e dell'unilateralismo.
Spesso tale concetto ed alibi viene traslitterato anche in “vantaggio ingiusto” anziché “vantaggio comparativo”, come ad esempio espresso recentemente dal Segretario di Stato Antony Blinken durante un forum ospitato dal McCain Institute. Con ciò viene fatto circolare anche il principio per cui si debbano sovvenzionare specifiche industrie statunitensi, con varie misure come l'Inflation Reduction Act, creando così non soltanto delle violazioni al commercio internazionale ma persino a quello interno. Infatti, in tal modo, riservando favoritismi ad alcune aziende a discapito di altre del proprio paese, Washington altera pure i concetti del libero mercato in patria, vanificando oltretutto l'accusa spesso rivolta alla Cina di non essere un'economia di mercato e di svolgere una concorrenza sleale tramite la partecipazione pubblica nelle sue imprese. Senza poi contare che proprio con tali misure gli Stati Uniti mirano a creare quel “vantaggio ingiusto” che frattanto imputano a Pechino.