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L'attacco all'Ambasciata iraniana a Damasco pone sempre più gli alleati di Israele con le spalle al muro a li

2024-04-05 20:52

Filippo Bovo

L'attacco all'Ambasciata iraniana a Damasco pone sempre più gli alleati di Israele con le spalle al muro a livello internazionale

E' notizia di pochi giorni fa, il raid israeliano che ha colpito gli uffici consolari dell'Ambasciata della Repubblica Islamica dell'Iran a Damasco. I

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E' notizia di pochi giorni fa, il raid israeliano che ha colpito gli uffici consolari dell'Ambasciata della Repubblica Islamica dell'Iran a Damasco. Inizialmente Tel Aviv ha negato ogni sua responsabilità, esattamente come del resto era avvenuto pochi giorni prima per le incursioni sui Caschi Blu e gli operatori umanitari nella Striscia di Gaza; la verità, tuttavia, non ha tardato ad emergere. Lo stesso ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, parlando alla Knesset, aveva detto che le Forze Armate stavano “lavorando ovunque per impedire il rafforzamento dei nostri nemici”. Secondo il New York Times, l'attacco israeliano sarebbe stato motivato dalla necessità di colpire uomini dell'intelligence iraniana e della Jihad Islamica riuniti presso l'Ambasciata per un loro “incontro segreto”. In tal senso, effettivamente, Israele non avrebbe badato a remore nella sua strategia d'impedire o rallentare un rafforzamento dei propri nemici regionali. Tra i primi a dar notizia dell'avvenuto, l'agenzia siriana SANA che ha espressamente parlato di “attacco israeliano” nel cuore di Damasco. Uno dei palazzi colpiti appartiene al complesso di proprietà dell'Ambasciata iraniana, ovvero di un paese strettamente alleato di Damasco: Iran, Siria ed Hezbollah compongono infatti il noto “Asse della Resistenza”, che li vincola ad azioni coordinate e congiunte e alla mutua difesa. All'Asse della Resistenza, a loro volta, sono più o meno vicini altri gruppi e paesi della regione, caratterizzati da una forte presenza sciita, come ad esempio l'Iraq o lo Yemen settentrionale. 

 

Al netto delle responsabilità dell'incursione, comunque ben presto evidenziate, sono tuttavia certi i nomi delle 11 vittime: tra queste, spiccano alti ufficiali del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica come Mohammed Reza Zahedi, già noto per il suo ruolo apicale nella Forza Quds attiva proprio tra Siria e Libano, e più volte scontratasi con le forze israeliane. Dall'Iran non ha tardato a giungere tanto l'avviso che una risposta vi sarà, come dichiarato dalla Guida Suprema Khamenei così come dallo stesso Ambasciatore: non si tratta in ogni caso di una sorpresa, dato che tutti plausibilmente non possono che concordare nel fatto che simili azioni rappresentino un incentivo all'escalation nelle tensioni internazionali. Nelle ore in cui avveniva il raid, Netanyahu era ufficialmente sostituito dal suo vicepremier e ministro della Giustizia, dovendosi sottoporre ad un'operazione chirurgica per la rimozione di un'ernia; ciò tuttavia non deve indurre a pensare che l'intervento su Damasco sia stato deciso da altri al suo posto, perché simili azioni richiedono adeguati tempi in termini di spionaggio e pianificazione. L'attuale premier, dunque, aveva sicuramente dato il via libera precedentemente ad intraprendere tale raid, affidando al suo vice e al resto dello staff il compito di portarlo avanti nelle ore in cui sarebbe stato sotto i ferri e poi in via di ripresa, all'ospedale, dopo l'anestesia. Poco prima era stata concordata una videoconferenza tra rappresentanti israeliani ed americani, riguardo l'invasione di Rafah e le sue implicazioni, mentre nel paese la protesta contro Netanyahu ribolliva sempre di più: secondo Haaretz, uno tra i pochi giornali israeliani un po' più critici verso le politiche governative e la sua condotta militare, a Gerusalemme davanti alla Knesset erano ben centomila a protestare contro il governo, chiedendo la liberazione degli ostaggi e le elezioni anticipate. I fatti riguardanti Damasco, che si traducono in un drammatico rischio d'ulteriore internazionalizzazione della crisi in atto, e quelli riguardanti Gaza, dove dopo l'evacuazione delle truppe israeliane dall'ospedale Dar al-Shifa vi è stata la sconvolgente presa d'atto di una vera e propria ecatombe di civili, hanno ancor più contribuito a distanziare settori crescenti dell'opinione pubblica israeliana dal proprio esecutivo. Quest'ultimo, con un “cerchio magico” composto da settori chiave della difesa e dell'intelligence, riunito intorno a Netanyahu, s'arrocca sempre più nei palazzi chiudendosi al confronto coi propri cittadini e del pari coi propri alleati.

 

Il punto di rottura vero e proprio con gli USA, principali alleati di Tel Aviv, non è stato evidentemente ancora raggiunto: la scorsa settimana Washington non ha posto il veto ad una risoluzione che intimava il “cessate il fuoco”, per correre in qualche modo ai ripari dal rischio che l'azione militare israeliana metta a repentaglio i calanti ma sempre importanti interessi americani in Medio Oriente e destabilizzi ancor più una campagna elettorale per le Presidenziali già fin troppo arroventata. Tuttavia, come conseguenza di quel mancato veto, Netanyahu aveva bloccato l'invio di una delegazione a Washington, con un segnale all'alleato americano che suonava fin troppo chiaro. La videoconferenza del 1 aprile rappresentava dunque un tentativo di rimediare, seppur in tono minore, alla perduta occasione di un confronto diretto. Discutendo di Gaza e dell'incombente azione di terra su Rafah, Israele ha lamentato la perdita di 600 suoi militari dallo scorso 7 ottobre ad oggi, a cui tuttavia fanno eco almeno 32.845 morti nella Striscia, secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità, a cui devono poi aggiungersi altre 75mila persone. Va considerato che nel frattempo sono pure in corso, con un certo nervosismo, i negoziati al Cairo tra rappresentanti israeliani e di Hamas; a tal proposito, in una telefonata in cui si congratulava con Abu Mazen per la formazione del nuovo governo dell'ANP guidato da Mohamed Mustafa, il Presidente egiziano al-Sisi ha concordato sulla necessità d'approdare ad uno Stato palestinese coi confini del 1967. E' intuibile in tal senso come ciò costituisca un campanello d'allarme, seppur non nuovo, per Israele che non a caso al Cairo non pare dimostrare una grande volontà di collaborazione, esprimendo anche insoddisfazione per l'azione troppo morbida del Qatar come paese mediatore nei confronti di Hamas. Anche il provvedimento, votato proprio in quelle ore dalla Knesset, di bloccare in tutta Israele la ricezione del segnale dell'emittente qatariota al-Jazeera al fine di silenziare ogni narrazione mediatica difforme da quella politicamente gradita al governo, suonava indubbiamente ai vertici di Doha come una provocazione che poco contribuiva a ritrovare un dialogo più disteso.

 

E' in tutto questo frangente, con un alleato che Israele ritiene sempre più scomodo e poco credibile come lo spagnolo Pedro Sanchez giunto in quei giorni in missione proprio tra Giordania, Arabia Saudita e Qatar per varie questioni tra cui la richiesa di rinnovare il “cessate il fuoco” e ricordare che la Spagna da luglio riconoscerà unilateralmente lo Stato palestinese, e con l'Iran che puntava l'indice sui fatti dell'ospedale di Dar al-Shifa a Gaza City chiedendo un'inchiesta internazionale con l'individuazione dei responsabili delle stragi, che il governo israeliano ha dato un ulteriore segnale di escalation, proprio nella forma del raid sull'Ambasciata iraniana a Damasco. Già nelle giornate precedenti i media siriani avvisavano di numerose incursioni israeliane sui cieli siriani, oltre che di lanci dalle alture del Golan: le avvisaglie dunque c'erano già tutte. Sei i morti all'Ambasciata, il cui bombardamento oltre che dall'agenzia siriana SANA è stato annunciato anche dall'emittente saudita al-Arabiya e dalla rete iraniana SNN, solo per citare alcuni dei primi media. Un corrispondente dell'AFP, giunto sul posto poco dopo, ha confermato che l'edificio di pertinenza dell'Ambasciata era stato letteralmente raso al suolo, a testimonianza di un attacco davvero massiccio. L'Ambasciatore è rimasto illeso, non altrettanto si può dire per i sette alti ufficiali dei Pasdaran, oltre alle altre vittime, tra cui due siriani e un libanese. Le reazioni, oltre a quelle dall'Iran con la promessa di un'inevitabile risposta, sono state in nuove e maggiori proteste in Israele così come nella richiesta da parte della Francia di una sessione del Consiglio di Sicurezza sulla situazione a Gaza. Anche l'ANP, inevitabilmente, ha chiesto una sessione straordinaria presso il Consiglio della Lega Araba per discutere della situazione a Gaza, a testimonianza che iniziative già preventivate hanno conosciuto a causa dei fatti di Damasco un'ulteriore e brusca accelerazione. Lo stesso si può dire per la Colombia, che blocca i rapporti diplomatici con Israele associandosi col Sudafrica e altri paesi nella causa penale sostenuta presso la Corte Internazionale di Giustizia. In generale, l'accelerazione è già di per sé un forte segnale di escalation, anche perché comporta forti pressioni sull'ONU, che a sua volta invierà una squadra d'investigatori a Gaza per occuparsi della strage al Dar al-Shifa, e perché accolga la richiesta dell'ANP che sia riconosciuta entro aprile la Palestina come nuovo Stato membro. Nel frattempo la nuova risoluzione votata dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU ribadisce la necessità a che si giunga ad un reale “cessate il fuoco”, trovando il plauso dei principali leader arabi moderati come l'egiziano al-Sisi o il Re di Giordania, Abdullah II.

 

Secondo fonti israeliane, quello di Mohammed Reza Zahedi a Damasco sarebbe l'omicidio più “eccellente” dopo quello del Generale Qasem Soleimani avvenuto quattro anni fa in Iraq. La possibilità che le risposte iraniane all'omicidio si concretino nel colpire non soltanto obiettivi israeliani ma anche americani in tutta la regione, induce gli USA ad una linea forse più cauta con Israele o quantomeno ad esprimerla in sede internazionale, come a voler cercare un rifugio in “zona sicurezza”. Proprio quando venne ucciso Soleimani, l'Iran reagì colpendo due basi americane in Iraq, con gravi danni per le strutture e il personale. Non è dunque un caso che ora la Casa Bianca, come espresso anche durante la videoconferenza con le parti israeliane, chieda maggior chiarezza sulle vittime presso l'ospedale Dar al-Shifa così come le sue preoccupazioni per l'incursione e i suoi esiti, oltre a ribadire per bocca del Segretario di Stato Antony Blinken la contrarietà ad un intervento di terra su Rafah. In tutto questo, Israele oltre a colpire obiettivi siriani ed iraniani, nella sua strategia di prendere in contropiede l'intero Asse della Resistenza, ha colpito anche obiettivi di Hezbollah nel Libano meridionale. Sono tutti piccoli e grandi incentivi ad una più ampia escalation generale, che si traduce in un vero e proprio “muoia Sansone con tutti i filistei” da parte dell'esecutivo israeliano; non sorprende che dall'altra parte si eviti di dar loro una risposta simmetrica e diretta, puntando invece a risposte asimmetriche ed indirette, e magari pure dilatate nel tempo. Ciò però alimenta infinite incertezze su come tali risposte da parte iraniana si sostanzieranno, perché ovviamente non potranno mancare dato che colpire un'Ambasciata significa per diritto internazionale aver colpito lo stesso territorio del suo paese. In questo caso, agendo con razzi lanciati dai suoi F-35, Israele ha dunque non soltanto violato la sovranità siriana, cosa purtroppo non nuova dato che numerosi sono i precedenti, ma pure quella iraniana. 

 

Pure l'UE manifesta, dal canto suo, preoccupazioni non dissimili da quelle statunitensi: il portavoce per gli Esteri, Peter Stano, ha non a caso invitato Israele a “mostrare moderazione” affinché eviti l'escalation. Quest'ultima, intuibilmente, è vista con preoccupazione perché proprio come per gli americani anche per gli europei i loro interessi e legami col Medio Oriente subirebbero inevitabili conseguenze. Le ambasciate in vari paesi mediorientali, per esempio, sono considerate in questo momento “obiettivi sensibili”, e non soltanto quelle israeliane ma anche quelle americane e di molti paesi europei. Israele sta già evacuando trenta sue ambasciate in vari paesi come Azerbaigian, Egitto, Marocco, Turchia, Giordania e Bahrain, e pure quelle dei suoi paesi alleati non fiutano un clima molto sicuro. Gli Emirati Arabi Uniti, nel mentre, s'aggiungono al numero dei paesi di una certa influenza, non soltanto mediorientali, che hanno interrotto i propri rapporti diplomatici con Israele: considerando il particolare caso di Abu Dhabi, e della sua politica nella regione, questa interruzione ha un significato che potrebbe preludere anche a forti cambiamenti di passo nella sua stessa linea di condotta, soprattutto strategica. Il suo ruolo in alcune aree mediorientali, dal Sudan al Mar Rosso, potrebbe ad esempio assumere a partire dalle prossime settimane delle sensibili mutazioni. Un altro grave segnale per gli USA e l'UE proviene anche dai rimproveri indirettamente ricevuti da Russia e Cina, che in Consiglio di Sicurezza hanno apertamente condannato l'azione di Israele implicando come essa sia stata possibile grazie anche al tradizionale “lasciar fare” dei suoi alleati occidentali. “Questo è un atto criminale nei confronti dello Stato sovrano dell'Iran, e anche in relazione allo Stato sovrano della Siria, sul cui territorio è stato commesso questo atto terroristico”, ha infatti dichiarato il direttore del Servizio d'Intelligence Estera Russa (SVR), Sergey Narishkin, mentre Mosca ha ottenuto la calendarizzazione di un'apposita riunione del Consiglio di Sicurezza proprio sui fatti di Damasco. Pechino, per bocca del portavoce del Ministero degli Esteri, Wang Wenbin, ha ugualmente ricordato che “La sicurezza delle sedi diplomatiche non può essere violata e la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale della Siria devono essere rispettate”. A tal proposito, non andrebbe dimenticato che gli USA, in occasione della guerra del Kosovo del ‘98-’99, colpirono proprio l'Ambasciata cinese a Belgrado, con la morte di tre suoi giornalisti. Pure per l'Iran, comprensibilmente, “L'America è da ritenersi responsabile”, come espresso dal suo vicerappresentante all'ONU Zahra Ershadi, in virtù proprio della sua alleanza ed acquiescenza con Israele. Un attacco da parte di forze irachene ad una base militare USA in Siria a Tanf, al confine tra Iraq e Giordania, è stato ricondotto all'Iran come del resto l'incursione su una base israeliana ad Eliat con un drone di fabbricazione iraniana guidato dalle milizie irachene. Per gli USA e i loro alleati europei, tuttavia, la sensazione è che le risposte saranno soprattutto ben altre, mentre l'azione pervicace di Israele altro non sembra fare che metterli sempre più con le spalle al muro: non soltanto in Medio Oriente ma pure in tutto il più vasto ambito internazionale. 

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