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Il perdurare della guerra a Gaza testimonia l'impotenza della Comunità Internazionale

2024-04-05 11:00

Filippo Bovo

Il perdurare della guerra a Gaza testimonia l'impotenza della Comunità Internazionale

Sul finire di marzo, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha adottato grazie all'astensione degli USA una risoluzione in cui veniva chiesto un immediato

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Sul finire di marzo, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha adottato grazie all'astensione degli USA una risoluzione in cui veniva chiesto un immediato cessate il fuoco a Gaza. In quel momento appariva un passo certamente tardivo, ma comunque importante: per la prima volta dallo scorso 7 ottobre, dopo numerosi tentativi andati a vuoto, l'ONU riusciva ad adottare una risoluzione di tale portata, senza trovare il veto ripetutamente avanzato in precedenza dagli USA e dagli altri paesi come Francia ed Inghilterra presenti nel Consiglio di Sicurezza e, per varie ragioni, indotti ad una sorta di ruolo di “avvocato del diavolo” a favore di Israele o meglio ancora del suo governo, guidato da Benjamin Netanyahu. 

 

Ciò che veniva richiesto nel documento era un “cessate il fuoco durevole e sostenibile”, col rilascio di tutti gli ostaggi da entrambe le parti. Come già detto, in precedenza era stato molto difficile trovare un punto d'intesa tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, col risultato che le varie risoluzioni proposte venivano bocciate vicendevolmente dopo esser giudicate troppo “sbilanciate” a favore quando di Israele, quando di Hamas. Ma erano in particolare gli USA ad apparire come il principale “osso duro” nella contesa, dato che si scontravano con una difficoltà a distanziarsi da Israele pressoché impossibile da aggirare. Le cose hanno cominciato probabilmente a cambiare proprio nei giorni immediatamente precedenti alla votazione del 25 marzo, dato che il proseguimento dell'azione militare israeliana su Gaza portava a gravi contraccolpi nei rapporti tra Washington e gli altri suoi alleati nella regione. Di fronte alla necessità di salvaguardare i propri interessi in Medio Oriente, che la pertinacia di Israele stava rivelando e scuotendo, e alle incognite di una campagna elettorale per le Presidenziali di novembre dalle costanti incognite, gli USA si sono ritrovati così sempre più immersi a metà del guado. 

 

Gli USA non possono giocarsi legami politici ed economici, non ultimo militari, nonché credibilità e prestigio in Medio Oriente presso i propri alleati arabi moderati come l'Egitto o la Giordania, o i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, primo tra tutti l'Arabia Saudita; e men che meno con quelli non arabi come in primo luogo la Turchia. Con tutti questi paesi gli anni del “grande amore” sembrano ormai finiti e alcuni di loro, probabilmente, attendono solo una “giusta occasione” per poter tagliare o quantomeno distanziare ancor più i propri rapporti con Washington. Nel mentre, come da vari sondaggi che circolano negli USA, l'opinione pubblica americana ha pressoché ribaltato il proprio giudizio verso Israele e la sua linea militare da novembre ad oggi. Se in principio gli americani erano, sia pur con una lieve maggioranza, favorevoli alle azioni intraprese dal governo Netanyahu, oggi solo il 36% continua ad approvarle, mentre il 55% vi si oppone: la forbice è peraltro in continua crescita, e ciò non lascia ben sperare per quei candidati e quelle correnti filo-israeliane, sia tra i Democratici che i Repubblicani, che guardano oggi alle prossime elezioni Presidenziali. 

 

L'Amministrazione uscente, già in imbarazzo all'idea di ripresentarsi agli elettori con la guerra in Ucraina ancora in atto, difficilmente potrà farlo presentando nel proprio bilancio anche l'incapacità ad aver fermato o quantomeno calmierato il conflitto a Gaza. Il conseguente calo di temperature nei rapporti tra Washington e Tel Aviv, pertanto, non poteva che risultare inevitabile, seppur forse non così profondo come potrebbe di primo acchito apparire. Ciò tuttavia spiega perché, sia pur con cautela, gli USA abbiano infine optato per non cassare una risoluzione dai contenuti comunque più concilianti rispetto a molte bozze apparse in precedenza, e bruciate dai ripetuti veti. Non è infatti casuale che l'ultimo sondaggio sia stato effettuato nel periodo dall'1 al 20 marzo: visti i risultati, a Washington non hanno potuto non tenerne conto, con relativo raffreddamento con Tel Aviv e più miti consigli in sede ONU. C'è dunque molta strategia elettorale nelle scelte di Washington, che sembra sempre più avvicinarsi ad un “dare un colpo al cerchio e uno alla botte”, visto che nel frattempo le forniture militari americane ad Israele paiono non conoscere crisi.

 

Drammaticamente abbiamo comunque visto che, pur non trovando veti nella sede del diritto internazionale, la risoluzione ne abbia invece trovati di non meno pesanti sul campo, dinanzi al rifiuto israeliano di prenderla in considerazione. Già subito dopo la sua votazione si faceva notare che, per quanto importante, ancor più importanti sarebbero stati gli strumenti con cui la si sarebbe fatta applicare: a dimostrazione della dolorosa impotenza della comunità internazionale a fermare un conflitto che inesorabilmente ha continuato comunque a procedere. Non a caso anche subito dopo continuavano le incursioni militari israeliane sul territorio di Gaza, così come veniva ribadita la volontà di Tel Aviv a procedere con un'azione di terra su Rafah che avrebbe intuibilmente prodotto una nuova catastrofe umanitaria nella catastrofe già in atto: cosa poi purtroppo puntualmente avvenuta, stando al racconto dei Caschi Blu ONU, già pochi giorni dopo bersagliati dal cielo, così come dei vari operatori umanitari e delle ONG, anch'essi presi di mira. I bombardamenti israeliani del 26 e 27 marzo, infatti, hanno già da soli comportato la morte di almeno 31 civili, 14 dei quali bambini; mentre l'aver colpito i Caschi Blu ONU e le ONG ha significato rispettivamente l'invio di un messaggio neanche troppo implicito, di ritorsione verso l'ONU nel primo caso e d'intimidazione ed invito a sloggiare verso sgraditi “terzi incomodi” nel secondo. 

 

Del resto, già poco dopo l'inizio della guerra a Gaza, il governo israeliano aveva chiaramente espresso di non voler troppi ostacoli o testimoni nella sua azione militare di terra. La sua intenzione di chiudere i civili in “isole umanitarie” scarsamente abitabili e sovraffollate non le risparmierebbe inoltre dai rischi, visto che di fatto in tutta Gaza non c'è un solo ettaro di terreno da ritenersi sicuro: gli attacchi aerei sulla “zona sicura” di al-Mawasi per esempio hanno portato alla morte di 28 persone. Qualora dopo aver colpito Rafah dal cielo, Israele passasse anche ad invaderla da terra, la catastrofe umanitaria sarebbe a quel punto incalcolabile, minacciando l'esistenza di 1,3 milioni di persone delle quali 610mila bambini e compromettendo la possibilità di fornir loro aiuti di prima necessità. Israele non ha dunque dimostrato finora alcuna volontà di rispettare quanto raccomandatogli dall'ONU e dal diritto internazionale, non adeguandosi all'obbligo di provvedere a “tutte le misure possibili per fornire ai civili evacuati beni di prima necessità per la sopravvivenza e garanzie di un ritorno sicuro e dignitoso una volta terminate le ostilità”. Se ne intuisce che solo un distanziamento ben più realistico di Israele da parte degli USA e degli altri alleati, con una loro effettiva condanna delle sue azioni che si traduca anche in concreti provvedimenti come la sospensione dei sostegni militari, anziché il cauto raffreddamento a fini elettorali portato avanti al momento, potrà davvero incidere sulla linea di Tel Aviv e soprattutto lanciare un credibile segnale a Netanyahu e al suo “cerchio magico”, assediati anche nel loro stesso paese da un'opinione pubblica sempre meno disposta a tollerare una “guerra alla cieca”.

 

L'attacco israeliano all'Ambasciata iraniana di Damasco, infine, ha visto gettare ulteriore benzina sul fuoco della tensione internazionale, portando a nuove fibrillazioni sia nell'area che in sede ONU. A tale argomento, molto specifico per il chiaro tentativo d'internazionalizzare un conflitto di per sé già fin troppo internazionalizzato, nonché per i vari precedenti relativi ad altri obiettivi iraniani colpiti da Israele in Siria, dedicheremo il prossimo articolo.

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