
Riprendendo quanto tracciato dall'articolo di qualche giorno fa, così da dargli un ulteriore approfondimento, vien davvero da chiedersi cosa resti dell'unità europea ed atlantica di fronte al quotidiano sviluppo delle crisi politiche e militari in Ucraina e in Medio Oriente. Certo, l'UE e la NATO sono due realtà differenti e non del tutto sovrapponibili, e lo stesso potremmo dire per le due crisi geopolitiche che in diverso modo le coinvolgono: peraltro, a quest'ultime andrebbero associate anche altre due analoghe crisi non certo di minore importanza come quelle che vanno da tempo delineandosi nel Caucaso e nel Pacifico. In tutti questi casi, le tendenze centrifughe in seno all'UE e alla NATO si legano a quelle degli USA, non meno profonde.
Che l'UE non sia oggi in uno dei suoi momenti migliori l'avevamo già detto, e non è infatti casuale la tendenza delle sue istituzioni centrali a voler blindare la maggioranza di governo uscente così da salvaguardarla dagli inevitabili rimescolamenti di carte che le prossime elezioni europee in un qualche modo comporteranno. Indipendentemente dalla composizione che il Parlamento europeo assumerà all'indomani del voto, certamente non tale da relegare in minoranza le “grandi famiglie politiche” di Bruxelles come PPE, PSE, ALDE e via dicendo rispetto ai vari “euroscettici”, la Commissione manterrà i suoi vecchi equilibri, addirittura con un inedito secondo mandato di Ursula Von Der Leyen alla presidenza. E' un mettere le mani avanti da parte di Bruxelles che ne testimonia la debolezza, persino la sindrome d'accerchiamento: il malcontento e la disaffezione verso le istituzioni comunitarie sono palpabilmente in crescita, soprattutto nei paesi fondatori dell'Ovest, e le proteste degli agricoltori ne sono state solo uno dei segnali più eclatanti.
Gli USA, per intuibili ragioni elettorali interne, preferiscono per il momento concentrarsi soprattutto sul Medio Oriente, “paracadutando” lo scomodo ruolo di Israele nella regione con proprie azioni che spaziano dall'Iraq allo Yemen, dove sono attivi con l'Inghilterra nell'Operazione Prosperity Guardian. Di conseguenza, non intendono fornire a Kiev un'assistenza di primo livello, o quantunque paragonabile al passato, almeno finché dopo il voto di novembre non vi sarà a Washington una nuova e sicura maggioranza democratica: al momento pare piuttosto improbabile, ma nulla viene lasciato al caso perché il ritorno alla Casa Bianca per Donald Trump sia più ostico che mai, e non solo giudiziariamente. Se davvero alla Casa Bianca anche nel 2025 vi fosse un presidente democratico, a quel punto non sarebbe difficile tornare alla carica sul dossier ucraino, con nuovi aiuti per Kiev o magari per trattare da una maggiore posizione di forza la fine del conflitto con la Russia, minimizzando il ruolo dell'UE che nel frattempo, però, ne avrebbe sostenuto quasi del tutto sulle proprie spalle il peso. Molto dipenderà, per l'appunto, da ciò che verrà a sostanziarsi nei prossimi mesi.
Questo spiega però perché l'UE miri a sfruttare l'occasione data dal momentaneo sfilamento degli USA dal ruolo di principali appaltatori del conflitto in Ucraina per potervi guadagnare un peso economico e militare maggiore, onde farlo poi valere quando il voto americano avrà dato a Washington nuove maggioranze parlamentari e una nuova amministrazione. In un certo senso, Bruxelles intenderebbe trasformare un ruolo in cui è stata quasi “incastrata” da Washington, quello di dover sopperire alla sua riduzione del supporto a Kiev, in un'occasione per acquisire un maggior potere negoziale al momento in cui il conflitto in Ucraina dovrà pur essere chiuso. E' proprio nel modo in cui verrà a chiudersi che si stabiliranno molti degli interessi di Bruxelles, dato che in una trattativa dominata soprattutto da USA e Russia sarebbe relegata all'angolo e danneggiata, mentre in una dove poter svolgere un ruolo negoziatore alla pari le fornirebbe maggiori garanzie per i suoi confini orientali, per la tranquillità dei suoi membri dell'Est, per il processo d'integrazione di Kiev nella “famiglia europea”, per il suo futuro nella ricostruzione, ecc. Chi sarà Presidente a Washington, in quel momento, non appare dunque un aspetto privo di rilevanza per Bruxelles, dato che avrà un peso sul suo futuro; ma è significativo che tra le due sponde dell'Atlantico le strategie e gli interessi si facciano sempre più divergenti, proprio nel momento in cui il conflitto diventa ormai sempre più “storico” e s'avvicina inevitabilmente il giorno in cui bisognerà pur decidere come venirne fuori, di là che si tratti di “chiuderlo” o di “congelarlo”.
Non è del resto un mistero che un Presidente repubblicano come Trump punterebbe ad un dialogo diretto con la Russia, abbandonando Kiev e lasciando Bruxelles fuori dalla porta, mentre per un presidente democratico come Biden il dossier ucraino andrebbe pur sempre rivendicato in patria come chiuso in modo vincente anziché semplicemente abbandonato al proprio destino, e l'UE come fidato alleato al proprio comando e non come parente povero o reietto. Entrambi, ad ogni modo, punterebbero sul chiudere la questione ucraina per potersi dedicare a quella del Pacifico, non prima d'essersi assicurati una certà sicurezza per gli interessi americani in Medio Oriente: insomma, il loro obiettivo finale sarebbe pur sempre la Cina, contro la quale applicare un sempre più severo “contenimento” a partire dall'area dell'Indo-Pacifico. La strategia è ormai anch'essa storica, e pure in tempi abbastanza recenti ha conosciuto nuovi arricchimenti, ad esempio con l'annuncio ai primi di febbraio che addestratori americani dei reparti speciali saranno impiegati in modo permanente sia a Taiwan, dove sono presenti dal 2023, sia in isole come quelle di Penghu e Kinmen, situate a soli nove chilometri dalla costa cinese.
Anche in questo caso, inutile doverlo specificare, qualora crescessero i dissapori tra Washington e Pechino l'UE si ritroverebbe suo malgrado coinvolta, o quantomeno vi si ritroverebbero molti suoi paesi membri; e lo stesso, va da sé, varrebbe anche per la NATO. Tuttavia, come dicevamo al principio, tanto l'UE quanto la NATO appaiono oggi realtà sempre più divise o in preda a crescenti tendenze centrifughe che vedono crescenti allontanamenti tra i loro membri interni. Le forze dei vari paesi europei, comprese quelle italiane, sono oggi presenti in vari teatri operativi in Medio Oriente, dal Libano al Mar Rosso e Golfo di Aden, in quest'ultimo caso per la missione Aspides; mentre per quanto riguarda l'Indo-Pacifico abbiamo già avuto ampi saggi con la portaerei Cavour inviata l'anno scorso vicino alle acque cinesi e con la sua partecipazione, quest'anno, a nuove esercitazioni nell'area come la Rim of the Pacific (Rimpac), a sottintendere la contiguità nelle strategie di “Mediterraneo Allargato” e di “Indo-Pacifico” che Roma e Washington da anni perseguono, indipendentemente dai colori politici che nel frattempo hanno caratterizzato i loro governi.
La dirigenza di Bruxelles, asserragliatasi nei suoi palazzi ed intenta a perpetuare i propri equilibri in Commissione, porta avanti le sue strategie, mentre i suoi vari Stati membri portano avanti le loro, ciascuno in merito ad ogni dossier internazionale; e non di meno si può dire per la NATO, che sempre a Bruxelles ha sede e pare accusare la stessa crisi d'unità. Gli USA, come dicevamo, vanno per il momento per conto loro, privando l'UE e soprattutto la NATO di certi vecchi ed abituali punti di riferimento: così i vari paesi membri si dividono tra quanti decidono d'andargli a loro volta dietro a ruota, e quanti invece puntano a cavalcare le varie crisi internazionali per guadagnarsi o riguadagnarsi maggiori spazi d'autonomia. Se Inghilterra, Italia, Francia e Germania attuano per proprio conto degli accordi bilaterali di sicurezza e cooperazione con l'Ucraina, bypassando la NATO, con gli USA che nel mentre si fanno i fatti loro pur gradendo intuibilmente una tale loro mossa, vien davvero spontaneo chiedersi cosa ne sia rimasta della tanto decantata “unità atlantica”, ammesso che mai sia davvero realmente esistita; anche perché, solo per trattare la questione ucraina, nel mentre altri membri NATO come Ungheria o Turchia già da tempo ben si guardano dal condurre la stessa politica bellica. Mentre nell'UE, dato che il voto europeo s'avvicina e vari governi nazionali si ritrovano a loro volta circondati dalla stessa contestazione interna che grava su Bruxelles, è da tempo in corso una vera e propria OPA tra i vari Stati membri per meglio tutelare i rispettivi interessi in gioco, sia sul dossier ucraino che su quelli relativi alle varie politiche comunitarie, con rivalità tra i “fondatori storici” dell'Ovest come Francia, Germania ed Italia, così come con quelli di più recente ingresso come i paesi dell'Est: ne avevamo trattato proprio nel precedente articolo.
Del resto, questa divisione che caratterizza l'UE e la NATO sembra in questo momento trovare proprio in Ucraina la sua maggiore espressione, e se i membri dell'Alleanza Atlantica vi procedono in ordine sparso, ciascuno portando avanti una propria visione, non di meno si può dire per quelli del grande consesso europeo. L'UE mira, dicevamo, a surrogare in Ucraina al ruolo degli USA, momentaneamente defilatisi, per poterne trarre vantaggi futuri, sia per il suo status geopolitico all'indomani del conflitto che per i suoi assetti ed interessi interni; ma anche i suoi stessi paesi membri, a cominciare da quelli che sempre hanno vantato un maggior peso internazionale, mirano a sfruttare quest'occasione per riacquistare la perduta grandezza, o comunque quella statura che l'invadenza americana di questi ultimi anni gli aveva sottratto. Ecco quindi il caso di Parigi, che in questo momento sembra ostentare una linea sempre più anti-russa, come asserito dalle dichiarazioni del Presidente Macron e dei suoi ministri: “se Putin non si dà dei limiti allora neanche gli europei non devono darsene, così che questi capisca che non è il caso d'alzare troppo la posta nel conflitto”, pare essere la strategia suggerita dall'Eliseo. Non vi è solo la proposta di mandare truppe in Ucraina, benché senza porle a contatto con quelle russe, ma vi sono anche segnali più concreti come il già citato accordo bilaterale siglato sempre con Kiev, ed uno analogo siglato con la vicina Moldavia, con l'invio di personale militare francese per addestrare l'esercito di Chisinau.
Un altro ancora dai medesimi contenuti è stato siglato con l'Armenia, dove il governo di Erevan in seguito alla reintegrazione del Nagorno-Karabakh da parte dell'Azerbaigian è in crescente tensione con Mosca dopo anni di buoni uffici. Parigi svolge un ruolo di primo piano come paese osservatore e garante nel Caucaso insieme a USA, Russia e Bielorussia dopo la fine della guerra tra Azerbaigian ed Armenia per il Nagorno-Karabakh del 1992-1994 e gli accordi siglati successivamente. In un'area dove i ruoli di Russia, Iran e Turchia vanno a pesare fortemente, e in un modo certamente poco colloquiale per Parigi, è difficile immaginare che la sua mossa vada oltre il semplice segnale politico, sostanziatosi nella maniera più concreta nell'invio ad Erevan di materiale militare vecchio e scadente quanto quello che già era stato fornito a Kiev, se non pure peggio; tuttavia è testimonianza anche delle difficoltà interne in cui pare dibattersi oggi l'Eliseo, stretto in una molteplice morsa. Non c'è solo la pressione dell'opinione pubblica, con le proteste che periodicamente incendiano il paese, dalle comunità araba ed africana agli autotrasportatori per finire ora con gli agricoltori, ma anche il peso di comunità influenti come quella armena, che in Francia al pari della comunità ebraica agisce come una vera e propria lobby, dettando i punti che le stanno più a cuore nelle questioni relative all'area del Caucaso.
Schiacciato tra le proteste interne e dal cortocircuito dettato dalle pressioni disorganiche di queste lobbies, mentre il ruolo francese nell'Africa subsahariana va evaporando e sempre più somigliando ad un'ormai vecchia "nostalgia coloniale", Macron tenta delle “fughe in avanti” che mirano a ridare alla Francia il perduto status di Grandeur almeno laddove teoricamente potrebbe essere ancora possibile. Questo può spiegare l'abbandono del vecchio “Asse Carolingio” con la Germania per bypassare Berlino direttamente con una propria rinnovata politica per l'Est, riesumando una vecchia tradizione politica parigina precedente alla riunificazione tedesca, e la maggior “entente cordiale” con Roma, in virtù del pregresso Trattato dell'Eliseo, così da mantenere per suo tramite un piede nel Continente Africano grazie al Piano Mattei su cui pure Bruxelles manifesta analogo interesse; il tutto, con un occhio rivolto pure alla questione mediorientale, altro banco di prova su cui giocare attentamente le proprie carte, affrontata in questo caso soprattutto da un altro presentabile alleato come Madrid. Intanto, però, guarda al Caucaso, dove mira a subentrare al raffreddamento nei rapporti tra Mosca ed Erevan rafforzando con quest'ultima i propri, storicamente buoni fin dal 1992, al punto da surclassare la stessa UE che non diversamente ripone le stesse ambizioni.
Quel che è certo è che, guardando il vasto scenario offerto da realtà differenti ma pur sempre caratteristiche dell'Occidente come USA, UE e NATO, tante siano le divisioni e che quelle qui descritte ne compongano solo una minima parte.