I lanci di razzi dall'Iran a cui abbiamo assistito in questi ultimi giorni, piovuti su precisi obiettivi in Siria, Iraq e Pakistan, hanno portato in molti in Occidente a credere che Teheran intendesse unilateralmente elevare i toni dello scontro trascinando così l'intero Medio Oriente ad una guerra di tutti contro tutti. Si trattava, intuibilmente, di suggestioni alimentate da un certo sensazionalismo a sfondo apocalittico, in cui le contrapposizioni manichee tra opposti fronti con relative guerre imminenti, prima ancora che nella realtà geopolitica, risiedono nella mente di coloro che a tutti i costi ve le vogliono vedere.
Certamente in tutto il Medio Oriente la tensione non è poca e il rischio d'ulteriori aggravi ben più che reale; ma proprio per questo grande è anche lo sforzo profuso per contenerla, e non a caso sia le tempistiche decise per questi lanci che le loro conseguenze nelle giornate seguenti ne sono un'ulteriore riprova. Per meglio spiegare quest'ultimo passaggio, però, occorre tornare indietro di qualche settimana, per citare alcuni episodi che per l'Iran hanno rappresentato l'avvicinarsi ad una pericolosa “soglia di guardia” da contenersi proprio con la risposta militare dei giorni scorsi. L'azione iraniana si contestualizza nella guerra che Israele sta conducendo a Gaza e che ha già avuto varie reazioni dal Libano meridionale, con le scaramucce portate avanti da Hezbollah, allo Yemen settentrionale, con gli attacchi condotti dagli Houthi a naviglio israeliano ed occidentale. Siamo ormai a più di cento giorni dall'inizio del conflitto a Gaza, ed Israele pare proprio non aver raggiunto alcuno dei suoi obiettivi: non è riuscita a distruggere Hamas, obiettivo che pare tuttora quantomai lontano, e nemmeno ad ottenere quel pieno e trasversale consenso internazionale alla sua azione di rappresaglia a lungo termine e al “diritto alla difesa” che la dovrebbe giustificare. Sono anzi sempre più contestate, non soltanto all'estero ma anche in patria, sia la dottrina militare israeliana che i suoi effetti, insieme alla credibilità e al consenso del governo e delle forze armate israeliane, oltre che dello stesso Stato di Israele. Non è per esempio una novità che il Sudafrica abbia da giorni avviato una causa d'incriminazione a carico di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia, con altri paesi ancora che a seconda del caso hanno deciso d'associarvisi oppure d'intentarne altre ancora d'analoghe a proprio titolo: dalla Bolivia al Messico, dal Cile alla Turchia, dalla Slovenia all'Indonesia, e così via, con un elenco che di giorno in giorno pare destinato a dilatarsi sempre di più.
In una simile situazione l'Iran, pur ribadendo costantemente il proprio sostegno incondizionato alla causa palestinese, ha sempre mantenuto una condotta improntata al massimo autocontrollo, che l'ha portato ad escludere facili reazioni dinanzi alle continue provocazioni che le giungevano da Israele e dai suoi alleati statunitensi, o da sigle terroriste identificabili come loro agenti locali. Sebbene nell'immaginario occidentale prevalga per l'Iran una reputazione, frequentemente pompata dai mass media, di potenza nemica dell'Occidente, minacciosa e pronta alla guerra, nella realtà dei fatti Teheran predilige soprattutto approcci moderati, grazie ad un calibrato uso della propria diplomazia. Quest'ultima, soltanto negli anni recenti, è riuscita a dipanare numerose matasse, tra le quali probabilmente la più nota all'opinione pubblica occidentale è quella relativa al dossier nucleare. Eppure questo equilibrio è stato continuamente messo alla prova, come dimostrato dall'attentato terroristico del 15 dicembre ad una stazione di polizia iraniana a Rask nella provincia sudorientale del Sistan, rivendicato dal gruppo jihadista sunnita Jaish al-Adl, e dall'assassinio soltanto dieci giorni dopo del generale iraniano Sayyed Reza Mousavi a Damasco, con un lancio di razzi dalle alture del Golan siriano occupate da Israele. L'Iran rispose, in sede internazionale, che una reazione vi sarebbe stata, dando già in quel momento un monito verbale affinché tali episodi non si ripetessero nuovamente: si trattava, quindi, di un avviso ufficiale, diffuso tramite i canali diplomatici, ben diverso da un'immediata rappresaglia che facilmente avrebbe potuto esservi se anziché contro Teheran tali attentati fossero stati contro Washington o Tel Aviv.
Tuttavia rimasero parole al vento, perché già soli pochi giorni dopo, il 3 gennaio, facendo saltare due bombe, l'ISIS colpiva cittadini e militari iraniani riunitisi a Kernan per commemorare il quarto anniversario dalla morte del generale Qasem Soleimani, ucciso nel 2020 da un drone statunitense all'aeroporto di Baghdad, con un enorme bilancio tra morti e feriti. A quel punto per Teheran, che aveva prontamente indicato negli USA e in Israele i mandanti dell'attentato, la misura era da ritenersi colma. Ecco che a questo punto trovano spiegazione i lanci missilistici su Idlib, in Siria, e nel Beluchistan, in Pakistan, che hanno provocato la neutralizzazione rispettivamente di un covo dell'ISIS e del quartier generale di Jaish al-Adl. Il terzo attacco, nel Kurdistan iracheno, ha infine eliminato un importante centro di spionaggio dell'intelligence israeliana, una sorta di “postazione avanzata” da cui il Mossad poteva più facilmente coordinare i propri attacchi in Iran e su obiettivi siriani nel resto della regione. Quest'ultima risposta in particolare ha dimostrato ad Israele, in un modo certamente piuttosto sinistro, le capacità dell'intelligence iraniana di localizzare, controllare e se necessario pure neutralizzare le attività dei suoi centri spionistici e militari nella regione. Ne implica che proseguire col gioco delle provocazioni, anche ricorrendo a sigle terroristiche più o meno eterodirette dietro cui nascondersi, sia una strategia sempre meno conveniente per USA ed Israele, con un relativo incremento nelle visioni dei due alleati su cosa fare di conseguenza. Oltretutto, i missili che hanno raggiunto gli obiettivi siriani sono stati in grado di coprire circa 1200 chilometri, raggiungendo perfettamente il bersaglio: anche questa, una prova del livello balistico oggi vantato da Teheran. Con la stessa facilità e sicurezza di precisione, avrebbero potuto raggiungere anche la stessa Israele. Non è infine casuale, andando ad acquisire un forte elemento simbolico, che Teheran abbia mandato questi perentori moniti “a mezzo missile” proprio in ricorrenza di un altro importante anniversario, quello del 16 gennaio 1979, allorché lo Scià Mohammad Reza Pahlavi abbandonò l'Iran per l'esilio, sancendo la vittoria della Rivoluzione Islamica.
Diverse sono invece le reazioni che l'operazione iraniana ha scatenato in Pakistan, e che hanno portato all'eliminazione della base locale di Jaish al-Adl. Tra i due paesi non sempre vi è stata una perfetta sintonia, aggravata pure dal cambio di governo che Islamabad ha conosciuto con la destituzione del premier Imran Khan. Caratterizzato da una forte liquidità politica interna, ed ancor prima da varie contrapposizioni etno-tribali e confessionali, il paese oscilla perennemente tra una vocazione regionale che lo porta ad una forte vicinanza con la Cina e, in modo più fluttuante, anche con la Russia, ed un residuale ma sempre forte retaggio postcoloniale che dopo la fuoriuscita dell'Inghilterra l'ha reso per lungo tempo appannaggio quasi esclusivo degli Stati Uniti. Le rivalità strategiche con l'India, non soltanto per la regione del Kashmir ma anche per il dossier afghano, sono state più volte motivazione del suo sposare questa o quella sponda, con una simmetria che anche a New Delhi poteva talvolta trovare una sua corrispondenza. L'evoluzione dei rapporti e degli equilibri internazionali, nel corso degli anni, ha visto dei profondi mutamenti di scenario: ad un'India strettamente anticinese e filosovietica, a cui corrispondeva un Pakistan filostatunitense e sporadicamente vicino a Pechino, sono subentrati due attori più fluidi nelle loro scelte, maggiormente improntati a delle politiche più multivettoriali nelle loro dottrine regionali così come nelle loro relazioni estere. Nel tempo il Pakistan ha diluito i suoi legami con Washington avvicinandosi più marcatamente a Pechino ed intavolando anche un rapporto più costante con Mosca, con cui in passato vi erano stati solo dei temporanei approcci; mentre l'India ha stemperato il proprio rapporto preferenziale con Mosca, ripiegatasi dopo il collasso sovietico, per rispolverarlo parzialmente negli ultimi anni con la sua riemersione nella regione e sullo scenario internazionale, in coabitazione con una maggiore apertura con l'Occidente e con Pechino.
Il Pakistan, con una popolazione in cui gli sciiti costituiscono il 20% del totale, pur senza vantare tutti una piena affinità coi loro correligionari iraniani, vive quindi l'odierna situazione di conflittualità internazionale alla luce dei mutati equilibri a livello mondiale e regionale, che si riflettono anche nelle sue dinamiche politiche interne. Nel momento in cui l'Iran colpiva la base di Jaish al-Adl nel Beluchistan, Islamabad reagiva percependo violata la sua sovranità territoriale con lanci di missile a sua volta, tesi a rilanciarne il prestigio nazionale e militare anche agli occhi della vicina e pur sempre rivale India. Chi ha immaginato una “rissa in famiglia”, tra membri di una comunità eurasiatica ormai sempre più portata ad un vicendevole avvicinamento, ovvero tra Iran e Pakistan entrambi con diversi equilibri sempre più in buoni uffici con Mosca e con Pechino, è così rimasto a bocca asciutta, anche perché non ha tenuto conto di tutte le particolarità del contesto circostante. Non a caso è subito pervenuta la mediazione cinese, a sanare sul nascere un potenziale conflitto sulle cui ragioni vi era in realtà ben poco da scommettere; e rapidamente i due paesi hanno ristabilito i propri rapporti, cessando ogni ulteriore azione militare. Andrebbe inoltre ricordato come la mediazione tra l'Arabia Saudita, storico alleato del Pakistan, e l'Iran, analogamente condotta con successo dalla Cina due anni fa e foriera di una maggior pacificazione tra Sciiti e Sunniti a consolidamento di tutto il quadro mediorientale e centroasiatico, abbia indubbiamente giovato anche agli equilibri interni pakistani, contribuendo ad una loro stabilizzazione, e pure questo elemento dovrebbe fornire più di uno spunto di riflessione a quanti tifino per conflitti regionali improvvisi ed immotivati. E' quanto possiamo vedere, dopotutto, anche nella concreta tenuta saudita verso gli sciiti meridionali yemeniti Houthi, così come in altre aree del Medio Oriente, dove l'influenza sul fattore politico e geopolitico dettata dalla distinzione tra elemento sciita e sunnita è storicamente incisiva, a tacer della contiguità geografica e d'interessi con Teheran, come la Siria e l'Iraq.