Lo dicevamo già qualche giorno fa, immaginando come possibile sebbene non certa (e men che meno augurabile) l'apertura di un “fronte meridionale” al conflitto israelo-palestinese a Gaza, a causa dell'intensificarsi delle azioni degli Houthi sul Mar Rosso. Dunque, un fronte “a trazione sciita”, al pari di quello settentrionale già in ebollizione lungo i confini israelo-libanese ed israelo-siriano, che non andrebbe però a ricadere direttamente su Israele come in questo caso ma bensì sui suoi alleati, in primo luogo gli USA e i principali o più fedeli loro partner europei. Il fatto che, almeno per il momento, il “fronte meridionale” non coinvolga direttamente Israele in termini d'impegno militare, non lo rende comunque meno dannoso per i suoi interessi: il Mar Rosso, dopotutto, è ora più che mai un'arteria essenziale per nutrire l'economia israeliana, soprattutto quella di guerra e soprattutto nel momento in cui Tel Aviv si trova sempre più isolata e in crescente sforzo militare. Per Israele così come per gli USA rompere questo isolamento si rivela dunque di giorno in giorno sempre più importante, anche perché una Tel Aviv in crescente isolamento e con le spalle scoperte nel Mar Rosso si traduce in un ulteriore aggravio di costi per i bilanci economici e militari di Washington: che lo voglia o meno, quest'ultima si ritrova così vieppiù implicata in un conflitto che, fino a pochi giorni fa, mirava semmai a circoscrivere onde evitare un proprio coinvolgimento.
L'isolamento non riguarda soltanto Israele, come dicevamo, ma anche gli stessi USA: i rapporti coi loro partner della regione, dopotutto, non sono mai stati così “tiepidi”, per non dir certe volte persino "freddi". Tolti quei paesi con cui i rapporti non sono mai stati particolarmente affettuosi, come la Somalia e l'Eritrea, e quelli con cui sono stati sempre poco affidabili, come il Sudan, o quelli con cui si sono andati raffreddando negli ultimi tempi, come l'Egitto, lungo la sponda africana del Mar Rosso l'unico dialogo che gli USA siano riusciti a mantenere nel tempo è stato con la piccola Gibuti, una sorta di locale “superpotenza delle basi” che concede un po' a tutti uno spazio per realizzare propri insediamenti navali e militari (ed infatti Washington vi ha Camp Lemonnier, per giunta considerata oggi troppo pericolosamente alla portata degli Houthi); mentre lungo la sponda araba l'antico idillio con Giordania ed Arabia Saudita appare oggi sempre più compromesso, per non parlar poi dello Yemen non più alleato ed interlocutore da ben prima della rivoluzione vinta dagli Houthi nel 2014.
Nel mentre, sempre più compagnie di trasporti sospendono la navigazione nel Mar Rosso, onde evitare possibili attacchi. Sebbene siano prevalentemente compagnie occidentali, non ne mancano ovviamente neppure di cinesi, oggi tra le prime al mondo per quantità e volumi di merci trasportate. Nel loro caso, però, si trovano a dipendere soprattutto dalla scorta militare garantita dalla flotta del PLA (l'Esercito Popolare di Liberazione), e ora più che mai non tanto per farsi difendere dagli Houthi o da altri ipotetici nemici regionali quanto dal pericolo di eventuali "false flags" provocate da USA ed Israele. Un “casus belli”, magari creato ad arte, permetterebbe agli USA di spezzare l'isolamento che insieme ad Israele patisce in modo crescente nella regione, ridefinendo a proprio vantaggio gli assetti locale. Smuovendo le acque del Mar Rosso, infatti, Washington potrebbe lanciare un duro segnale ai paesi della regione, in particolare a quelli che un tempo erano i suoi più storici alleati come l'Arabia Saudita, così da ricondurli nella propria sfera d'influenza; debellerebbe o ridimensionerebbe gli Houthi, riaprendosi un varco nello Yemen, e sul fianco africano accentuerebbe l'isolamento da sempre attuato verso Eritrea o Somalia, finanche dandosi nuove possibilità per tentarvi dei “regime change”. Inoltre, riconducendo indietro di anni l'orologio della storia, provocherebbe una rottura tra sciiti e sunniti, ovvero tra iraniani e Houthi yemeniti da una parte e sauditi ed emiratini dall'altra, annullando i benefici ottenuti nella regione dall'accordo di pace irano-saudita mediato da Pechino. Non è dopotutto un mistero che uno dei maggiori sogni di Washington sia, in questo momento, vanificare proprio l'accordo di pace ottenuto da sciiti e sunniti coi buoni uffici di Pechino così da ricondurre i secondi nel cono d'ombra israelo-americano: sfruttando artatamente la “Fitna” potrebbe insomma far rivivere gli accordi di Abramo e scacciare la crescente presenza cinese nella regione, che giudica con sempre maggior apprensione bollandola come “minaccia agli interessi americani”.
L'operazione è folle ma a qualcuno evidentemente potrebbe piacere, al punto da giudicarla persino facile; un po' meno facile, invece, sarebbe vedersela con gli Houthi che oggi si coordinano coi pescatori somali (spesso a suo tempo definiti "pirati", così da contribuire ad una maggior confusione) e che già hanno dato prova della loro tenacia tenendo testa ad otto anni di guerra scatenatagli congiuntamente, con relativo blocco umanitario, da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, più volte umiliandoli sul campo e riportando varie vittorie. Non a caso, intuendo i pericoli derivanti da azioni troppo improvvisate od intemerate, e pur divisi nelle loro politiche regionali e in materia di Mar Rosso, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti oggi mirano a far capire agli USA che non è il caso d'intromettersi più di tanto nell'area. E' in particolare Riyad a non volere che si agitino troppo le acque del Mar Rosso, con un punto di vista condiviso anche dai suoi interlocutori ed alleati della sponda africana; e men che meno a desiderare che si comprometta un accordo di pacificazione con gli Houthi faticosamente raggiunto dopo otto infruttuosi anni di guerra. Comunque sia, certo è che se l'apertura di un nuovo fronte meridionale poteva prima apparire solo come un'ipotesi, oggi invece sembra rivestire una ben maggiore consistenza.
Un esempio è prontamente giunto con l'annuncio, già anticipato qualche giorno fa dal Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, di una nuova operazione a guida americana atta a garantire una maggior sicurezza nel Mar Rosso. L'Operation Prosperity Guard (OPG) pare tuttavia già perder pezzi alla nascita: al momento l'unico paese arabo che vi partecipi è il Bahrain, visto che Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dopo un primo ipotetico interessamento hanno rifiutato di prendervi parte. A comporre la OPG troviamo dunque Francia, Inghilterra, Italia, Olanda, Spagna, Norvegia, Canada e Seychelles: vien da pensare che, rispetto a qualche anno fa, oggi gli USA fatichino molto di più a tirar su le loro consuete "coalizioni di volenterosi", dovendosi quindi avvalere dei soliti "ultimi irriducibili". Non miglior fortuna ha avuto poi il goffo tentativo di coinvolgere, simulando un improvviso rispetto dei confini sanciti nel 2022 dall'EEBD (Eritrea - Ethiopia Boundary Commission), una partecipazione dell'Eritrea all'OPG. Dopo trent'anni di continue sanzioni e boicottaggi internazionali, condito da svariati tentativi di "regime change", gli USA speravano di poter improvvisamente ritrovare un'intesa con Asmara per trasformarla d'un colpo in un loro strumento nella lotta agli Houthi e soprattutto alla stabilità della regione e della Penisola Arabica in particolare: ovvero, proprio contro la pacificazione tra Arabia Saudita ed Houthi, raggiunta grazie agli sforzi di Pechino, come se oltretutto tanto Riyad quanto Pechino non fossero per Asmara suoi storici e stretti alleati. Va da sé che un tanto maldestro approccio di Washington non abbia sortito altro, da parte eritrea, che un silenzio glaciale: ovvero qualcosa di non molto diverso da quanto già avvenne col Venezuela nella primavera del 2022, subito dopo l'inizio della guerra in Ucraina e le sanzioni occidentali alla Russia, quando gli USA tentarono di riavvicinarsi un po' a Caracas e soprattutto al suo petrolio. Sappiamo come anche allora, dopo qualche battuta e dialogo iniziale, sia poi andata a finire. Insomma, se in passato in Medio Oriente gli USA perseguivano la “strategia del caos”, oggi sembrano invece vivere soprattutto il “caos della strategia”.