Proseguendo nelle considerazioni già accennate nell'articolo precedente, riguardanti la confusa volontà occidentale d'indurre l'Ucraina ad avviare con la Russia dei negoziati finora visti come un male assoluto, dobbiamo tuttavia tener conto di una serie d'aspetti tutt'altro che da ignorare. Ad esempio, se per il Wall Street Journal o per Foreign Policy sarebbe ora di finirla col “wishful thinking” o “pensiero magico” di un'inevitabile sconfitta russa in Ucraina, non così è per molta altra parte del mondo politico e mediatico occidentale, per il quale tale dogma resta ancora intoccabile. Peraltro, anche le soluzioni prospettate dagli stessi WSJ e Foreign Policy, come da altri ancora, paradossalmente ricadono poi di nuovo nel “wishful thinking” immaginandosi, dopo l'idea ormai abbandonata di un'inevitabile sconfitta russa, quella di un'altrettanto inevitabile disponibilità di Mosca ad accettare proposte che in realtà le risulterebbero del tutto inaccettabili. Nulla di cui meravigliarsi: quei loro primi smarcamenti, da prendersi comunque per benvenuti, rappresentano quella che in futuro sempre più sarà la nuova “linea ufficiale”, in sostituzione di quella vecchia che dava per indiscutibili il sostegno NATO alla guerra in Ucraina e la sconfitta russa. Ce ne dobbiamo abituare, perché sarà il nuovo pane che verrà servito alle mense dell'opinione pubblica occidentale ogni qual volta i media si ritroveranno a parlare, sia pur con accresciuta accortezza, dell'Ucraina, della Russia e della loro guerra.
Tuttavia, qualcuno farà notare, parlare ora di negoziati nella formula prospettata in Occidente è “troppo facile, troppo poco e troppo tardi”. Gli Accordi di Minsk sono stati calpestati sprezzantemente, le trattative avviate dalla Turchia nelle prime settimane di conflitto invalidate nel momento in cui stavano dando dei primi e promettenti risultati, il piano di pace avanzato dalla Cina più volte rigettato fino al punto da far letteralmente fallire la conclusione del G20 di Bali; e tutto questo considerando che, almeno nell'ultimo e penultimo caso, vi fosse pure una disponibilità da parte di Kiev ad accettarli, frustrata però dal divieto imposto da Washington. Troppo facile ora per l'Occidente chiedere di trattare, solo perché ci s'è resi conto d'aver perso la guerra; troppo poco proporre alla Russia condizioni tanto misere da implicare un ovvio rifiuto, anche perché suonerebbero persino come offensive dopo le sanzioni, gli attentati condotti nel suo stesso suolo, il sabotaggio del North Stream, l'incriminazione alla CPI del Presidente Vladimir Putin, e via dicendo; troppo tardi, soprattutto, perché vengano davvero prese in considerazione da Mosca, soprattutto se confezionate in un formato tanto avaro e derisorio. Inoltre, su pressione degli elementi più nazionalisti e soprattutto degli alleati NATO più potenti, ad un certo punto Zelensky ha persino emanato un decreto che vieta a chiunque, in Ucraina, di trattare una pace con la Russia: non varrà molto, anzi, di fatto non varrà nulla, ma aiuta comunque a far capire quale sia stato il clima finora dominante intorno al conflitto e al suo sostegno da parte occidentale.
Tuttavia, se ora v'è qualche smottamento nelle fila del sostegno occidentale a Kiev e alla guerra, in Ucraina ve ne sono invece molti di più, con numerosi esponenti di primo e secondo piano che iniziano a “cantare” talvolta rompendo proprio le uova nel paniere ai loro benefattori, sia nazionali che internazionali. L'intervista a Valerij Zaluzhniy di un mese fa, per esempio, ha rivelato delle crepe da allora allargatesi sempre più, come provato anche da altri esponenti di governo “sbottonatisi” nel frattempo. Per esempio Davyd Arakhamia, capo del gruppo parlamentare di Sluga Narodu, partito di Zelensky, che pur occupando nella politica ucraina un ruolo in apparenza non di primo piano ne è invece un tassello fondamentale. Di famiglia georgiana di Gagra, nato a Sochi in Russia e trasferitosi in Ucraina con la famiglia dopo la guerra in Abkhazia del 1992, è cresciuto con educazione "all'occidentale" culminata nella laurea all'Università Europea di Kiev, con tanto di master in Management alla Open University di Londra. Fondatore di varie compagnie di tecniche informatiche, nel 2014 è entrato in politica come consigliere del Ministero della Difesa, diventando dal 2019 deputato e leader del gruppo parlamentare del suo partito; in tal veste, ma non solo, è membro del ristretto gruppo di "consiglieri" di Zelensky, pur mostrandosi ben più raramente degli altri. Il forte riserbo è infatti una delle sue principali caratteristiche, tanto che al contrario degli altri suoi compari non indugia più di tanto nei social: se su Facebook dichiara d'usare uno pseudonimo, su Telegram invece si limita a semplici e poco compromettenti comunicati patriottici. Di conseguenza, una sua intervista dai contenuti ben più che confidenziali non poteva certo rimanere inosservata.
Chi vorrà leggerla nel dettaglio, troverà certamente pane per i suoi denti. Ad ogni modo, facendone un rapido riassunto, Arakhamia il 28 febbraio 2022 era uno dei membri della delegazione ucraina recatisi in Bielorussia per i primi ed infruttuosi negoziati, per poi far parte anche di quella ad Istanbul dove, almeno inizialmente, le cose sembravano andar bene, come ricordato qualche mese fa anche dallo stesso Putin durante l'incontro a Mosca coi vertici dell'Unione Africana. Un accordo era stato più o meno concordato, tanto che il 29 marzo il comando russo aveva addirittura annunciato il ritiro, prima parziale e poi completo, delle sue truppe dalla zona a nord di Kiev e non solo. Proprio da questo punto s'infulcra l'intervista rilasciata da Arakhamia, che conferma in pieno la versione di Putin compreso il motivo per cui alla fine l'accordo sarebbe rimasto lettera morta. Più precisamente, dice che i russi “erano pronti a finire la guerra se avessimo accettato di essere neutrali, tipo come era stata la Finlandia” e che "per accettare questo punto bisognava cambiare la Costituzione. La nostra strada verso la NATO è fissata nella Costituzione. In secondo luogo non c'era e non c'è fiducia verso la Russia, la cosa si poteva fare solo se ci fossero state garanzie di sicurezza. Non potevamo firmare (…), era possibile solo se fossimo stati sicuri che la cosa non si sarebbe ripetuta. Ma non ne eravamo sicuri. Inoltre, quando siamo tornati da Istanbul Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non bisognava firmare niente con loro e bisognava continuare a combattere". Poco dopo l'arrivo di Johnson a Londra, a Kiev sarebbero stati consegnati i missili HIMARS, ma è comunque bene ricordare che le famose “garanzie di sicurezza” menzionate da Arakhamia in realtà c'erano, comprese nei "18 punti" della bozza di accordo e fornite dal Consiglio di Sicurezza ONU, nonché da Germania, Turchia, Italia, Polonia e Cina.
Le dichiarazioni di Arakhamia hanno subito sollevato un putiferio in patria, con un'altra deputata di Sluga Narodu, Marijana Bezuhla, che a mezzo social ha pubblicato una forte critica a Zaluzhny. Secondo la deputata il comando ucraino non avrebbe alcuna strategia per il 2024, “né grande né piccola, né asimmetrica né simmetrica”; ma soprattutto “se il vertice militare non riesce a fornire nessun piano per il 2024, e tutte le sue proposte di mobilitazione portano (…) a più uomini senza nessuna proposta di riforma (…) delle Forze Armate, allora questo vertice se ne deve andare”. Si tratta dunque dell'ennesima critica a Zaluzhny, ormai identificato come principale responsabile dell'odierna e disastrosa situazione militare ucraina dal vertice politico guidato da Zelensky. I suoi connazionali, non soltanto nei social, si sono divisi tra quanti l'accusano d'aver tradito il proprio paese, facendo il gioco di Putin, e chi invece le riconosce delle ragioni. Nella bagarre s'è prontamente inserito anche Oleksij Arestovych che già da tempo si propone come mediatore tra le emergenti fazioni nel paese e soprattutto come nuovo candidato per le elezioni presidenziali ucraine del prossimo anno. Intervenendo a sua volta nei social, ha commentato la vicenda accusando Arakhamia di voler spostare le responsabilità su Johnson, la Bezuhla su Zaluzhny, Zaluzhny sui vertici politici nazionali ed infine Zelensky tanto su Johnson quanto su Zaluzhny. A suo parere invece la colpa sarebbe di quanti hanno promesso all'Ucraina sostegno per la guerra senza fornirlo, perché “la nostra guerra l'abbiamo vinta”. Continuando ad argomentare, Arestoviych spiega che l'invasione russa era stata più o meno fermata e che a Istanbul si poteva raggiungere un accordo; se così fosse stato fatto, ora “centinaia di migliaia di persone sarebbero ancora vive”, implicitamente contravvenendo alle dichiarazioni ufficiali ucraine che limiterebbero i caduti a non più di trentamila.
Poi però è iniziata un'altra guerra che non potrà esser vinta senza aerei, missili a lungo raggio e rifornimenti cinque volte più grandi di quelli attuali, notoriamente distribuiti sempre più col contagocce. Pertanto, secondo Arestovych, ora gli alleati starebbero progressivamente scaricando l'Ucraina con accuse di corruzione ed errori militari e pressioni affinché molli a Putin i territori contesi chiudendo il prima possibile la guerra: "abbiamo investito tanto su di voi, ma siete tanto corrotti e stupidi che non ha funzionato, ora mollate quattro regioni a Putin e va bene così". Per questo, dice Arestovych, le responsabilità ricadono ovviamente su quanti hanno promesso senza mantenere, ovvero degli alleati occidentali, ma al tempo stesso anche del vertice ucraino, che ha imbrogliato pure i suoi stessi cittadini fornendo ai primi un'ottima scusa per giustificare la sua truffa. In sostanza Arestovych esprime sostegno all'esercito che a suo dire almeno nella prima fase “la sua guerra l'ha vinta” e critiche al governo come agli alleati occidentali, ed assume un ruolo di mediatore tra le due crescenti fazioni politiche ucraine. Tra le due, si manifesta pure come unico ad accusare apertamente gli alleati occidentali, implicitamente tirandoli in ballo anche per quanto riguarda gli eventuali negoziati: se ci saranno, lascia intendere, sarà soltanto per colpa loro, visto che hanno promesso senza mantenere, e non certo di chi dovrà sedere al tavolo e firmare delle condizioni a quel punto intuibilmente draconiane.
Sia quel che sia, ad ogni modo è certo che mentre a Kiev, e pure in Occidente, volano gli stracci, prima o poi a nuovi negoziati si dovrà pur arrivare; e non è detto che, per quanto draconiani saranno nelle loro condizioni, anche stavolta vi sarà qualcuno a farli saltare.