Torniamo a distanza di qualche giorno a parlare dell'Ucraina per continuare a seguire la lenta moria del suo conflitto, sul campo come nella percezione della politica e dei media internazionali. Come più volte osservato, fino al 7 ottobre sulle prime pagine non si parlava d'altro, e non diversamente valeva per il dibattito politico; ma, appena scoppiato il conflitto a Gaza, l'Ucraina è letteralmente scomparsa dai radar, e soltanto a distanza di diversi giorni media ed esponenti politici sono tornati a parlarne, per approcciarvisi però in un modo sensibilmente differente. Adesso infatti l'obiettivo non è più quello d'alimentare il conflitto ucraino, ma di preparare il terreno al suo abbandono: così, si comincia a far passare l'idea, prima del tutto bandita dal lessico politico e mediatico, che la controffensiva ucraina sia stata un facilmente prevedibile disastro, che il sostegno al governo di Kiev sia stato troppo fiducioso se non persino cieco o che le forze armate ucraine non fossero adeguate ad un compito tanto gravoso quanto quello di fronteggiare l'intervento russo. Al contempo, e a denti sempre meno stretti, s'inizia ad ammettere che la Russia sia ben lontana dal crollare o dall'avere forze armate scadenti ed impreparate, nonché malarmate, tanto che le capacità tecniche e produttive della sua industria bellica sarebbero addirittura in esponenziale crescita; mentre le sanzioni che avrebbero dovuto rapidamente devastarne l'economia si sarebbero persino ritorte contro l'Occidente; e così via con altre osservazioni che soltanto fino a poche settimane fa sarebbero state ufficialmente considerate del tutto inaccettabili.
Un chiaro esempio lo s'è avuto nella prima decade di novembre, quando con un suo articolo Bloomberg ha annunciato che ben difficilmente l'UE potrà garantire a Kiev la già concordata fornitura di un milione di proiettili d'artiglieria a partire da marzo 2024, stanti proprio le sempre più difficili condizioni economiche e produttive interne e la volontà espressa da più parti di sfilarsi il prima possibile e nel miglior modo dal conflitto. Per Kiev non è comunque l'unica cattiva notizia, visto che oltre agli alleati europei anche quelli americani sembrano ormai esserle sempre più scontrosi e sfuggenti: pochi giorni dopo il New York Times, con un articolo a firma di Mark Galeotti, ha espresso preoccupata insoddisfazione per il fatto che i servizi d'intelligence e sicurezza ucraina (SBU) ormai non condividano più i loro piani coi colleghi occidentali, accentuando un comportamento che già in precedenza avevano varie volte manifestato. Secondo l'autore, “la leadership ucraina non sta più facendo tutti gli sforzi possibili per evitare che l'Occidente venga coinvolto nel conflitto”, contravvenendo pertanto alle indicazioni occidentali di non proseguire nella guerra asimmetrica contro Mosca, fatta di colpi bassi come sabotaggi, omicidi mirati ed azioni terroristiche sul suolo russo, alimentando così il serio rischio di una escalation. Conseguentemente, Mosca a quel punto “potrebbe adottare misure di rappresaglia direttamente contro l'Occidente” costringendo a sua volta quest'ultimo a reagire militarmente; e ciò intuibilmente alla leadership ucraina converrebbe assai.
A rafforzare la denuncia del New York Times, un articolo del Washington Post a firma di Shane Harris ed Isabelle Khurshudyan, che ha accusato i reparti speciali ucraini d'aver organizzato proprio con tali intenti il sabotaggio al North Stream; la denuncia, prontamente respinta dal diretto interessato, è stata più precisamente rivolta ad uno dei suoi colonnelli, Roman Chervinsky. Secondo le autrici dell'articolo, per il caso del North Stream non si potrebbe più parlare di un gruppo di sabotatori autonomi e solo indirettamente ricollegabili ad elementi di governo, ma di personalità delle forze armate ucraine il cui operato non poteva affatto essere sconosciuto ai loro vertici; inoltre ne conseguirebbe che un paese come l'Ucraina, non facente parte della NATO, avrebbe danneggiato un'infrastruttura strategica non soltanto per la Russia ma anche per la Germania, che invece è parte della NATO. Di là da questa rivelazione, in sé non nuova ma che certamente rafforza la convinzione a rivedere con una diversa luce il rapporto d'alleanza tra Kiev e la NATO nel quadro del conflitto contro la Russia, rimane comunque la sensazione che il poco noto Chervinsky sia più che altro un buon capro espiatorio con cui nascondere altre personalità ben più in alto di lui e che per il momento ancora non si vuole o non si sa come toccare. Tra queste, la maggiormente indiziata è Valerij Zaluzhnyj, finito sulla graticola dopo la sua famosa intervista all'Economist di cui già avevamo parlato; quanto a Chervinsky, questi appare davvero come un soggetto perfettamente sacrificabile, visto che è già agli arresti in Ucraina con varie accuse che vanno dall'appropriazione di fondi alla gestione d'operazioni fallimentari, oltre soprattutto ad aver fatto spiare con microspie ed intercettazioni il cognato del capo dell'ufficio presidenziale ucraino Andriy Yermak, per motivi al momento ancora ignoti.
Insomma, l'Ucraina è oggi sempre più inaffidabile per gli alleati, se non addirittura pericolosa; e soprattutto non serve nemmeno più economicamente o militarmente parlando, perché gli obiettivi reconditi con cui l'Occidente l'aveva fino a questo momento sostenuta sono stati almeno per gli USA ormai pressoché raggiunti. Sul finire di novembre il Washington Post, organo ufficiale dell'apparato militare e d'intelligence americano, ha infatti nuovamente ricordato quali siano le reali ragioni dell'aiuto fornito all'Ucraina, ben lontane dalla difesa della democrazia o di un semplice alleato, documentando pure con una certa soddisfazione che il 90% del denaro destinato a Kiev per gli aiuti militari resti in realtà negli USA. Ben 117 fabbriche sparse in 31 stati, senza contare ovviamente le ancor più numerose aziende dell'indotto (dall'elettronica alla chimica fino alla metallurgia, ecc) e quelle attive nella produzione non espressamente militare (dal tessile alla farmaceutica fino alle armi leggere non classificate come produzioni ad indirizzo strettamente militare), lavorerebbero infatti più per alimentare una grande “mangiatoia” interna che per distribuire all'alleato ucraino un reale e consistente aiuto in termini d'armi, munizioni ed altro equipaggiamento. In sostanza, gli USA starebbero semplicemente svuotando i magazzini trasferendo a Kiev armamento vecchio di decenni, per rimpiazzarlo con altro di nuovo e tecnologicamente al passo coi tempi; e non di meno starebbero facendo gli altri loro alleati della NATO, soprattutto quelli dell'Europa Orientale, liberandosi del vecchio dispositivo sovietico risalente al Patto di Varsavia per rimpiazzarlo con altro di nuovo fiammante, naturalmente “made in USA”. Non a caso nell'articolo si possono leggere passaggi come “stiamo dando all'Ucraina sistemi d'arma che spesso sono vecchi di decenni e così rimpiazziamo le nostre scorte con versioni più avanzate” col risultato che “il nostro aiuto all'Ucraina non solo crea posti di lavoro per gli americani ma rinvigorisce la nostra disastrosamente atrofizzata base industriale militare”. Insomma, a spese del contribuente americano come di quello europeo, così come degli ucraini e del loro paese, gli USA e il loro apparato militar-industriale si starebbero soprattutto sbarazzando di un po' di vecchia “ferraglia” per farsi un nuovo arsenale militare, presumibilmente da usare verso altri obiettivi che non saranno certamente il fronte tra Mosca e Kiev, ma magari quello del Pacifico, ovvero contro la Cina vista a Washington come tema sempre più prioritario, senza ovviamente trascurare il Medio Oriente e neanche la stessa Russia. Non a caso l'articolo reca pure una bella recensione promozionale per il Patriot del quale, pur in assenza di prove sul campo contro i concorrenti, viene garantita la sicura capacità d'abbattere i missili ipersonici.